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Migliaia al valico di Rafah ma il confine con l’Egitto è chiuso

All’ingresso della scuola dell’Unrwa, l’ente di assistenza dell’Onu nel campo profughi di Jabalya, a nord di Gaza City, sono parcheggiati carretti ed asini.

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Sono i mezzi di trasporto delle famiglie di sfollati, spesso agricoltori, che sabato hanno dovuto abbandonare precipitosamente le loro case nel nord della Striscia, a ridosso del territorio israeliano. Fadi Kafarneh, 45 anni, era nella sua abitazione di Beit Hanun quando sul cellulare è comparso un perentorio messaggio delle forze armate israeliane che gli intimava di sgomberare. “Mi sono spaventato molto e non ho fatto a tempo a prendere niente da casa”, ha raccontato all’ANSA. “Abbiamo afferrato solo qualche indumento, i documenti e siamo fuggiti via”.

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Mentre l’intero rione si metteva in moto, la figlia di Fadi è dovuta però andare in ospedale dove ha partorito, prima della data prevista. Adesso è anche lei a Jabalya, nella scuola dell’Unrwa, stesa col bebè su un materassino messo a disposizione da una famiglia del quartiere impietositasi per le sue condizioni.
In questi giorni le strade di Gaza sono un disastro. In assenza di servizi del municipio, ovunque si vedono montagne di immondizia, assieme con i detriti di case colpite dall’aviazione israeliana. Al loro interno si cercano ancora i corpi delle vittime. Secondo fonti mediche i morti nella Striscia, dall’inizio delle ostilità, sono già 800. Sui marciapiedi si vedono seduti uomini e ragazzi. Sono obbligati a restare all’aperto perché i loro appartamenti sono affollati da congiunti fuggiti da zone pericolose e le stanze interne sono riservate alle donne.
L’Unrwa ha messo a disposizione degli sfollati tutte le sue scuole. Complessivamente c’è posto per 100 mila persone. Oggi si è arrivati a 170 mila. Un disastro, e Fadi lo ha compreso subito. “Ogni famiglia riceve una classe. Noi, che siamo in 13 persone, siamo chiusi in una classe di nove metri quadrati”.

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All’interno ci sono solo sedie e banchi. I banchi sono stati raccolti nel centro della stanza, per garantire alle donne una certa privacy. I panni sono lavati a mano e stesi alla finestra.
Acqua potabile non c’è, e nemmeno cibo, tanto meno corrente elettrica. Non ci sono nemmeno materassi. Per sfamarsi, oggi famiglia riceve 20 pitte (il pane arabo) al giorno. Così da sabato. Dice Fadi: “Noi non abbiamo soldi per comprare vivande.
Cerchiamo di ricevere qualcosa dagli abitanti di questo rione”.
Ma nell’aria, dice la moglie di Fadi, “si respira la paura di nuovi bombardamenti israeliani e nessun posto può dirsi sicuro”.
Nel sud della Striscia, al valico di Rafah, migliaia di palestinesi cercano disperatamente di lasciare Gaza e di passare in Egitto. Oggi il valico è chiuso, forse domani aprirà, anche se Il Cairo per il momento fa sapere di averlo fermato sine die.

 

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Fadi Kafarneh, se potesse, andrebbe anche lui in Egitto? “La mia casa forse non esiste più, il mio quartiere è in rovina, ma io non mi trasferirò mai in Egitto”. Un altro sfollato, Said Abu Derrabi, è di parere opposto. E’ originario di Beit Lahya, pure al confine con Israele. “Se potessi, partirei subito”, afferma.
Fa parte di una famiglia di 14 persone che è arrivata oggi in quella scuola. Hanno lasciato immediatamente Beit Lahya dopo aver visto nelle immediate vicinanze la cosiddetta ‘Cintura di fuoco’: ossia le minacciose fiammate dei prolungati bombardamenti israeliani lungo una linea determinata. I figli di Abu Derrabi non dormono da tempo e sono esausti. Per ora sono nel cortile, in attesa che si trovi per loro una sistemazione.
“Eppure finora – dicono sconsolati – nessuno di quanti hanno già ricevuto una classe vuole spartirla con noi”.

Sorgente: Tra gli sfollati di Gaza in fuga dalle bombe IL REPORTAGE – Notizie – Ansa.it


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