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Diplomazie al lavoro per creare un corridoio umanitario che consenta di fuggire dalla Striscia. Tajani vola al Cairo

di Tommaso Ciriaco

Un mini-corridoio umanitario attraverso il valico di Rafah. Gestito dalle Nazioni Unite. Capace di garantire soltanto un limitato scambio umanitario, che consentirebbe ad alcuni civili di lasciare la Striscia prima dell’ingresso dell’esercito israeliano a Gaza. Il piano è quello di assicurare una via di fuga per alcune donne e bambini palestinesi in difficoltà, malati gravi o portatori di handicap. Ma anche a un numero ridotto di ostaggi israeliani: i più anziani, i più piccoli, quelli con pesanti problemi di salute.

È una corsa contro il tempo, questa mediazione di cui si discute ai massimi livelli della diplomazia internazionale nelle ore che sembrano precedere l’attacco via terra. Sono gli Stati Uniti ad avere la regia della trattativa, in una triangolazione che coinvolge anche il Qatar (e che potrebbe sfruttare anche la disponibilità del presidente turco Erdogan, che ha avviato negoziati diretti con Hamas per la liberazione degli ostaggi). Anche Roma si è ritagliata un ruolo, dopo la missione che ha portato ieri Antonio Tajani al Cairo dal presidente Abdel Fatah al Sisi. Tutto, però, è appeso a un filo: l’Egitto, il Paese che dovrebbe ospitare i rifugiati, frena. Al Cairo, l’allarme riguarda il possibile flusso di profughi. Gli effetti sulla stabilità interna. Dovesse fallire il negoziato, i civili si ritroverebbero prigionieri involontari del conflitto, nel mezzo di un guerra urbana combattuta nel cuore di Gaza.

Dettagli ufficiosi e dichiarazioni pubbliche mostrano comunque lo sforzo diplomatico di queste ore. «Stiamo attivamente lavorando per un corridoio», sostiene il portavoce del consiglio della Sicurezza nazionale Usa John Kirby, spiegando che l’operazione procede con il coinvolgimento di Egitto e Israele. È quanto sostiene al Cairo anche Tajani, ipotizzando un canale umanitario. Il problema è che al Sisi non sembra disposto a concedere molto. E non è soltanto per alcuni bombardamenti registrati in prossimità del valico: sono soprattutto ragioni di sicurezza e politica intera ad allontanare una soluzione. Gli egiziani temono che molte migliaia di palestinesi in fuga possano stabilirsi nel Sinai, dando vita a una comunità difficilissima da controllare. Certo, secondo la mediazione in corso in queste ore sarebbe l’Onu a gestire il “filtraggio” dei civili, garantendo i belligeranti e soprattutto l’Egitto. A pesare, però, c’è il fattore tempo, perché l’attacco di terra renderà ancora più probabile il congelamento del valico.

La pressione dei civili palestinesi aumenta di ora in ora. Già martedì, migliaia di persone sono confluite a Rafah e Khan Yunes. Convinti di poter attraversare il confine, rassicurati dal fatto che le autorità egiziane stessero procedendo all’apertura di un ospedale sul proprio versante del valico per accogliere i feriti più gravi di Gaza. Anche ieri, però, la porta è rimasta chiusa. E la posizione del governo di al Sisi non aiuta a sperare. «Abbiamo discusso i piani con gli Stati Uniti e altri paesi per fornire aiuti attraverso il confine, con un cessate il fuoco limitato», fa sapere il Cairo attraverso Reuters. Se la proposta egiziana ruota attorno a un’improbabile tregua e a rifornimenti per i civili, significa che l’opzione di un corridoio umanitario non ha ancora prodotto risultati concreti. Né aiuta la Lega araba, che in sintonia con l’Egitto critica l’opzione di «trasferire palestinesi fuori dal proprio territorio, aggravando il problema dei rifugiati».

È soltanto uno dei nodi al centro del viaggio di Tajani al Cairo. Il ministro porta in Egitto la condanna senza appello ad Hamas, ma soprattutto un messaggio diplomatico chiaro: va evitato a tutti i costi un allargamento del conflitto ad Hezbollah. «Bisogna fare di tutto per una de-escalation – sostiene – e per impedire che il conflitto si allarghi al Libano». Non è un riferimento casuale: in quel Paese agisce la missione dell’Onu Unifil, nella quale l’Italia impegna 1.200 soldati. Ma c’è di più: insistere sull’obiettivo del “contenimento” serve al ministro per ricalibrare la politica dell’esecutivo, allargando lo spettro delle interlocuzioni al mondo arabo. In questo, Tajani gioca di sponda con Giorgia Meloni, che ieri ha sentito l’emiro del Qatar, un Paese legato ad Hamas e all’Iran. La premier si è unita alla richiesta di una «rapida de-escalation», preoccupata da «un ulteriore allargamento del conflitto».

È una posizione che tiene conto, come detto, dell’alto numero di militari in Libano. E d’altra parte, proprio su questo punto al ministero della Difesa si registra preoccupazione e massima attenzione. Le informazioni di alcune agenzie di intelligence alleate, si apprende, sono difformi. Diversi partner non confermano il rischio di un coinvolgimento di Hezbollah. Ma Guido Crosetto e la Difesa, che hanno diretta responsabilità dei militari, hanno comunque scelto di mantenere alta l’allerta. Pronti a riportare in patria i soldati in caso di ritiro sancito dall’Onu o di conflitto conclamato lungo il confine libanese. Di certo, sono state già approntate tutte le misure utili allo scopo, nell’eventualità di un rapido precipitare della crisi.

Sorgente: “Facciamo uscire i civili da Gaza”. Ma l’Egitto frena – la Repubblica


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