A fargli eco è stato il ministro degli Esteri Tajani, il quale ha affermato che “serve una vera politica industriale della Ue che punti a un sistema di concorrenza globale”. Dunque, ritorno ai vincoli fiscali, investimenti decisi a livello centrale e completamento dell’unità bancaria.
A complemento di ciò serve allargare lo sguardo all’Africa, ai Balcani e all’America Latina, per trovare le risorse e i mercati adatti a competere con Russia e Cina. Ovviamente, senza “apparire predatori o neocolonizzatori”… ma solo apparire, la sostanza è quella.
L’ultimo tassello di questo discorso è fare passi avanti sulla difesa comune, elemento cardine anche per Josep Borrell, il fautore del “giardino europeo contro la giungla”. L’alto rappresentante Ue per la politica estera vi ha posto accanto altri cinque nodi.
Portare l’Ucraina alla vittoria; ricalibrare l’approccio alla Cina secondo gli interessi UE; gestire l’emergere dei Brics – ovvero di un mondo multipolare –; ripensare il proprio concetto di sicurezza; allargarsi e passare, infine, a un sistema di voto a maggioranza qualificata. Tappe che mirano, ancora una volta, ad assumere un ruolo strategico proprio sullo scenario internazionale.
Ma la UE ha grossi problemi, a partire dai fondamenti dell’economia. La prima giornata, seppur non solo su questo tema, ha dato molto spazio alle difficoltà del modello produttivo comunitario, e sul peso dell’inflazione e delle politiche della BCE per contrastarla.
Molti economisti pensano a una pausa nel rialzo dei tassi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma gli indicatori europei sono meno rosei di quelli statunitensi. L’irrigidirsi dell’accesso a finanziamenti per l’investimento è la preoccupazione di tanti imprenditori presenti a Cernobbio, mentre la recessione diventa sempre più una realtà concreta.
Mandare in crisi l’economia per rallentare la corsa inflattiva mostra già quanto le teorie dominanti siano oggi illogiche e criminali, ma per di più il risultato atteso è ancora ben lontano. Per questo Enrico Marchi, presidente di Banca Finint e di Save, l’aeroporto di Venezia, ha detto che “l’importante è non fissarsi sul feticcio dell’inflazione al 2%”.
Nei palazzi europei devono pensare, dice l’ad di Edison Nicola Monti, che la transizione green farà alzare i prezzi della costruzione dei nuovi impianti, e bisogna perciò ragionare sul lungo periodo. Ma a Francoforte non tutti la pensano allo stesso modo.
Isabel Schnabel, del board esecutivo della BCE, appena qualche giorno fa ha sottolineato che, nonostante l’attività manifatturiera sia crollata a livelli tipici delle recessioni profonde, non si può sapere se non saranno necessari ulteriori aumenti dei tassi. Nonostante la stabilità dei prezzi verrebbe scambiata con un atterraggio brusco dell’economia continentale.
Ad ogni modo, non si prevede di raggiungere il target sull’inflazione prima del 2025. Fino ad allora, tutti i costi verranno scaricati sui settori popolari, come anche al Forum Ambrosetti tutti hanno implicitamente confermato.
Per questo serve sostenere e firmare la proposta di salario minimo di Unione Popolare, sul piano immediato del conflitto capitale-lavoro, e costruire un largo e autonomo fronte di opposizione sociale e politica nelle piazze alle politiche governative. Questo autunno ci pone questi come obiettivi.