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«Non ricordo il loro volto, era una persona, forse due, era buio. Prima di allora non avevo mai avuto rapporti sessuali», racconta la ragazza minorenne. Arrivata nel nostro Paese, inizia il secondo calvario. Tra reticenze e mancate tutele, all’ordine del giorno per chi vuole interrompere una gravidanza

Cinquantadue giorni. Tanto ha dovuto attendere Anne (nome di fantasia) prima di poter interrompere una gravidanza causata da abusi subiti in un centro di detenzione libico. L’intervento è stato effettuato in un ospedale pubblico di Roma il 17 settembre. Alla ventesima settimana. Fossero passati solo altri dieci giorni, sarebbe stata costretta a tenere il bambino.

«Non ricordo il loro volto, era una persona, forse due, era buio. Prima di allora non avevo mai avuto rapporti sessuali», racconta la ragazza, 15 anni, proveniente da un Paese del corno d’Africa. Sbarcata in Italia il 30 giugno, il 26 luglio scopre di essere incinta. Le dodici settimane previste dalla legge 194/1978 per abortire tramite intervento chirurgico sono già passate. Dopo la quattordicesima, l’unica soluzione consiste in un’espulsione indotta tramite medicinali. Bisognerebbe affrettare i tempi. Ma il centro di accoglienza per minori non accompagnati che la ospita non si rivolge ai consultori, in grado di seguirla e aiutarla a superare gli ostacoli dell’odissea italiana che intraprende chi vuole abortire: dalla reticenza di chi ha idee diverse, e non rispetta la scelta della ragazza, a un rimpallo di responsabilità che nessuno si vuole assumere.

Rimpallo che inizia il 19 agosto; come previsto dalla Legge 194, il giudice tutelare richiede una consulenza specialistica per valutare le condizioni psicologiche della ragazza e dare il proprio consenso all’interruzione della gravidanza oltre i novanta giorni. Incaricato di questo compito, un collegio di neuropsichiatri si sarebbe dovuto pronunciare il prima possibile, ché in situazioni del genere ogni giorno diventa fondamentale. Il tempo, nella testa di una quindicenne che si trova in un Paese straniero, costretta a fuggire dal proprio mondo e violentata più volte prima di intraprendere un viaggio che non sa dove la condurrà, con la sorella, in quel momento dispersa, come unico punto di riferimento, ecco, il tempo in quel periodo si misura tra una necessità, quella di voler abortire, e l’indifferenza, la mancanza di empatia di chi la dovrebbe tutelare.

Il collegio di esperti non raggiungerà mai l’unanimità richiesta per procedere. Due membri sono contrari, ritengono sia ormai troppo tardi per abortire. Si arriva al 28 agosto. Un secondo giudice tutelare è chiamato a decidere sul destino di Anne, sempre convinta della sua decisione. Mancando il referto, però, il magistrato non può dare l’autorizzazione. E per Anne sembra ormai finita. Chi la segue le fa intendere erroneamente che sarà costretta a tenersi il bambino frutto delle violenze subite in un centro di detenzione libico. «Quale essere umano non ha pietà di una ragazza che ha subito questo inferno? Quale persona non riesce a capire una creatura che ha vissuto cose che molti di noi non vivono in 90 anni? È veramente troppo», afferma Mafalda, altro nome di fantasia, chirurga specializzata in ostetrica e ginecologia che si è presa in carico l’operazione. Anche dopo novanta giorni e senza l’autorizzazione di un giudice, infatti, un medico può caricarsi della responsabilità della minore.

L’ospedale era allertato già da agosto, in attesa di quel referto che non arriverà mai. Grazie alla tenacia di un’organizzazione umanitaria internazionale, e dopo il rifiuto di un ospedale in cui non c’erano medici disposti a effettuare un’interruzione di gravidanza dopo il primo trimestre, la ragazza viene accolta il 16 settembre e il giorno dopo le viene indotto un travaglio abortivo. «Le donne in questi casi entrano in un mondo talmente oscuro che non hanno piacere a raccontare, nemmeno con le amiche. Perché un conto è l’aborto dopo poche settimane, un conto quando partoriscono e vedono nascere un feto che sino a poco prima sentivano muovere dentro di sé. Vengono considerate delle killer, è una bella prova. L’ennesima che ha dovuto superare la ragazza».

 

Sorgente: È stata violentata a 15 anni in Libia. Ma il suo aborto in Italia è un altro inferno – L’Espresso

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