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Pechino è il filo rosso che dà senso alle parole di Biden. La geometria delle alleanze si sposta e si ricompone verso Oriente. Anche la lotta per il clima è vista come una competizione

L’ombra lunga di Xi Jinping si staglia sul Palazzo di Vetro anche se il suo intervento è in streaming. La Cina, ancora e sempre, è il filo rosso che dà un senso alle parole di Joe Biden. Il presidente degli Stati Uniti arriva all’appuntamento dell’Assemblea generale Onu assediato dai dubbi altrui sulla leadership globale del suo paese. “Non vogliamo una guerra fredda, ma una vigorosa competizione tra potenze”, è la risposta che riassume la nuova strategia verso Pechino.

No, io non sono Donald Trump: in risposta alle accuse velenose dei francesi questo è un altro messaggio implicito di Biden, quando elenca le emergenze da affrontare. Cambiamento climatico, pandemie. Lui prende sul serio queste minacce che incombono sull’umanità intera, e su questi terreni crede nella cooperazione tra nazioni.

Su almeno un altro terreno però la continuità con Trump è reale: la visione di un impero o ex-impero americano che si ripiega, si rattrappisce, rinuncia a difendere tutte le periferie, richiama a casa legioni disperse, concentra l’attenzione e le risorse sull’unica sfida vitale. “Le guerre non risolvono i problemi”, così Biden liquida l’Afghanistan, a un mese dall’evacuazione di Kabul che ha guastato i rapporti con tanti alleati.

Difendere la democrazia e i diritti resta per lui una missione dell’America (a differenza di Trump), però il linguaggio delle armi vuole sostituirlo con una relentless diplomacy. Invece delle guerre infinite, e delle missioni di nation-building a tempo indeterminato, propone questa diplomazia persistente, implacabile, inarrestabile. Chiede alle liberaldemocrazie del mondo intero unità contro le autocrazie e i loro assalti tecnologici (hacker, ransomware, le cyber-guerre endemiche e quotidiane).

Consapevole dei malumori che serpeggiano in Europa, Biden ha avuto la presenza di spirito di far precedere il suo intervento alle Nazioni Unite dall’annuncio della prossima riapertura delle frontiere Usa. Un gesto importante, visti gli innumerevoli disagi che la mancanza di reciprocità infliggeva agli europei.

Ma mentre annuncia che gli Stati Uniti abbassano il ponte levatoio, in parallelo Biden compie un gesto inequivocabile: ai margini dell’Assemblea Onu convoca il primo vertice dal vivo del Quad, il quadrilatero delle democrazie dell’Indo-Pacifico in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese. India, Giappone e Australia sono gli altri tre angoli del quadrilatero, attorno al quale Biden vuole costruire una coalizione più vasta, che attiri alleati tradizionali come Corea del Sud, Indonesia, Filippine, Singapore. Il tasso di liberaldemocrazia è assai variabile in quell’area, ma è evidente l’interesse comune a controllare e limitare le mire egemoniche di Xi Jinping.

La dottrina Biden è ispirata da realismo e modestia: quest’America sa che da sola non può fare da contrappeso a una nazione con un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, un Pil che presto raggiungerà quello degli Usa, forze armate che almeno in Asia orientale sono già superiori. Solo le alleanze possono ristabilire qualche equilibrio nei rapporti di forze. Perciò l’importanza degli alleati verrà soppesata in base alla loro efficacia, al loro impatto nella grande sfida con la Cina.

È qui che il gesto di convocare il summit Quad appare in tutta la sua dirompenza. Le geometrie delle alleanze americane si spostano e si ricompongono verso Oriente. Alleanze à la carte, in certi casi, perché ad esempio l’India non è né disponibile né adatta a integrarsi in un dispositivo militare come quello anglo-australo-americano. Ma è in questa nuova geometria delle alleanze che la vecchia Europa dovrà superare le sue prove.

L’Amministrazione Biden non ha abolito uno solo dei dazi di Trump contro il made in China, se possibile vuole forme ancora più stringenti di embargo su alcune tecnologie strategiche. Il Vecchio continente, visto da Washington, appare pericolosamente tentato da una strategia di “terza forza”, una equidistanza almeno economico-finanziaria tra la sfera russo-cinese e l’America. Biden ha reso omaggio alle Nazioni Unite, ma sul multilateralismo ha i suoi dubbi, da quando le istituzioni internazionali sono state penetrate da una diplomazia cinese onnipresente, e spesso dotata di potere di veto.

L’appello alla cooperazione sul Covid non ha impedito a Biden di chiedere nuove indagini sull’origine cinese della pandemia; mentre la lotta al cambiamento climatico viene declinata a Washington e a Pechino soprattutto come una “vigorosa” competizione strategica per il dominio sulle tecnologie verdi.

Sorgente: Dalla pandemia alle tecnologie verdi, le ombre cinesi sull’intervento di Biden all’Onu – la Repubblica

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