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Nel prossimo disegno di legge “Sostegni bis”, che il governo prevede di varare in questa settimana, è inserita la norma che consente agli under 36 di comprare casa con la garanzia dello Stato. Si tratta di una delle prime misure per la ripartenza, accolta da un generale consenso. Eppure, se ci fermiamo a riflettere, la soluzione prospettata ricalca schemi del passato e non tiene conto delle esigenze delle nuove generazioni. Sappiamo, come ha detto il presidente Mario Draghi, quanto sia difficile per i giovani trovare lavoro, mettere su casa, farsi una famiglia. E’ altrettanto vero, però, che la crisi distruttiva che ci trasciniamo da anni, acuita dalla pandemia, e la nuova realtà del mercato del lavoro hanno modificato il rapporto degli italiani, soprattutto dei giovani, con la casa. Tante certezze sono venute meno.

Vi sono studi che documentano la sensibile crescita delle sofferenze bancarie derivanti dai mutui prima-casa. Il disagio abitativo colpisce ormai anche fasce ampie di ceto medio in difficoltà. Dal dopoguerra in poi e fino agli anni Novanta, gli italiani hanno considerato la casa l’investimento più sicuro per eccellenza, lo status symbol di un raggiunto benessere. La percentuale dei proprietari di casa, che nel 1965 era pari al 46 per cento, è salita a circa l’80 per cento.

Dall’inizio di questo millennio e, segnatamente con la crisi finanziaria del 2007 – 2008, generata dalla bolla immobiliare negli Usa, abbiamo assistito, però, ad una profonda divaricazione tra redditi delle famiglie e costi dell’abitare. Redditi stagnanti, prezzi (immobiliari) crescenti. Questa divaricazione è stata in parte compensata da una relativa facilità di accesso ai mutui-casa e da bassi tassi di interesse.

L’ammontare annuo dei mutui-casa ha raggiunto la cifra monstre di 350 miliardi. Un colossale trasferimento di denaro dal lavoro alla rendita finanziaria e immobiliare (banche, proprietari fondiari, imprese di costruzione). La cosiddetta finanziarizzazione del «mattone» si è tradotta in una massiccia ridistribuzione di risorse dal basso verso l’alto. L’industria edilizia, dagli anni Ottanta al primo decennio del Duemila ha sfornato una media di 200.000 unità abitative all’anno, quasi tutte destinate alla vendita.

Con un consumo di suolo smisurato e un grave danno per l’ambiente. Sta anche qui, in questi processi non governati di espansione urbana, l’origine di tante diseguaglianze sociali e di tanti mali che affliggono le nostre periferie. La maggior parte delle famiglie, che hanno acquistato casa negli ultimi venti anni, e che un tempo sarebbero state classificate come benestanti, vivono ora al limite della soglia di povertà, oberate dal debito contratto con gli istituti di credito.

In conclusione, deve essere chiaro che l’agevolazione ai giovani non può essere un mezzo surrettizio per far ripartire il mercato immobiliare. E’ legittimo sospettare che dietro tanta attenzione al mondo giovanile si nasconda in realtà the bad intent (il cattivo proposito) di “piazzare” alcune decine di migliaia di unità abitative invendute, soprattutto nelle desolate periferie urbane. Il governo strizza l’occhio al potente settore dell’immobiliare, che rivendica la sua fetta di torta del Recovery, e a farne le spese rischiano di essere i giovani. Ognuno di loro, infatti, può indebitarsi, in base a questa norma, fino a un massimo di 250 mila euro.

Il problema dell’Italia è che da trent’anni non si costruiscono più case popolari. Le competenze in materia di edilizia residenziale pubblica (Erp) sono state trasferite alle Regioni, che non investono. Il mercato degli affitti è debole e asfittico. Nelle città è quasi tutto assorbito dagli affitti brevi, gestiti dalle piattaforme digitali. L’obiettivo su cui puntare è un mercato delle locazioni che funzioni, prevedendo per le fasce sociali deboli un piano di investimenti in Erp.

Il mercato del lavoro chiede mobilità e il governo incentiva la casa in proprietà, il massimo dell’immobilità. Se accolliamo in capo alle giovani coppie gravosi mutui da pagare è gioco forza cercare lavoro in funzione della casa e non viceversa. In un’economia globalizzata, in cui le opportunità di lavoro possono cambiare spesso, la casa in affitto (sociale, calmierato) per i giovani corrisponde di più alle diverse e mutevoli esigenze di vita, di mobilità, di lavoro, di reddito.

Sorgente: Ai giovani non serve il mutuo ma un affitto basso | il manifesto

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