P2: la loggia massonica e Licio Gelli a 40 anni dalla scoperta dei nomi | Rep

DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE), BENEDETTA TOBAGI (TESTO), CON UNA TESTIMONIANZA DI CONCITA DE GREGORIO, COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. PRODUZIONE GEDI VISUAL
In una mattina di quarant’anni fa esatti, 17 marzo 1981, a Castiglion Fibocchi, comune in provincia di Arezzo, negli uffici dell’allora sessantaduenne Licio Gelli, imprenditore con un passato da ex volontario franchista nella guerra di Spagna e quindi repubblichino di Salò, uomo legato all’Internazionale nera e ai regimi militari sudamericani, vengono scoperti dalla magistratura di Milano gli elenchi della loggia massonica segreta P2. Si tratta di 962 nomi che disegnano la geografia di un potere occulto incistato nel cuore delle istituzioni. Un network di potere che ha come suo programma quello di torcere, fino a modificarne forma e sostanza, l’architettura repubblicana figlia della Costituzione del 1948 e che tiene insieme uomini di vertice degli apparati di sicurezza, della classe politica, dell’establishment finanziario e dell’informazione, della magistratura e dell’avvocatura. È lo scandalo più grave della storia della Repubblica, destinato a segnarne il corso.
Non fosse altro perché a quelle della loggia P2 s’intrecciano, in quel decisivo passaggio della storia del nostro Paese, mille vicende oscure: dalla stagione delle stragi (nel 2020, Gelli verrà indicato come uno dei mandanti di quella di Bologna), al sequestro e omicidio di Aldo Moro. Licio Gelli, dopo periodi di detenzione in Svizzera e in Francia, ha continuato per oltre trent’anni a vivere a Villa Wanda, la sua residenza in provincia di Arezzo, dove si è spento il 15 dicembre del 2015. La sua storia e quella della P2, dei suoi 962 iscritti, non hanno mai smesso di fare da quinta al contesto della cosiddetta prima e seconda Repubblica. Il sistema di relazioni e la rete di ricatti scoperti in quel marzo 1981 hanno continuato a pesare nella vita pubblica del Paese, consegnandoci un’eredità tossica. Per questo, quarant’anni dopo, ne ripercorriamo la storia, provando a tracciare un bilancio di ciò che la loggia fu e, soprattutto, di ciò che del “sistema P2” resta nell’Italia di oggi.
Maledetta primavera
Nelle prime ore del mattino, una Fiat Ritmo sfreccia nelle campagne in provincia d’Arezzo, tra declivi verdeggianti e alberi in fiore. È diretta a Castiglion Fibocchi, un borgo di duemila anime. Coincidenza significativa, quel giorno cade il 120mo anniversario dell’Unità d’Italia. Col senno di poi, un presagio. Perché anche quel martedì 17 marzo 1981 sarebbe diventata una data storica. A suo modo. A bordo dell’auto viaggia una squadra della guardia di Finanza, partita da Milano su disposizione dei magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo (uno dei pm protagonisti, dieci anni dopo, dell’inchiesta Mani Pulite). La comanda il maresciallo Francesco Carluccio, un quarantenne energico, originario del Salento, tra i più abili e fidati investigatori delle Fiamme gialle milanesi. Con lui, sono i colleghi Concezio De Santis, Salvatore Polo e, al volante, Luigi Voto. L’operazione in cui sono impegnati è così delicata e protetta da tale segreto che, neppure loro, al momento di partire da Milano per dirigersi in Toscana, ne conoscono l’oggetto.

Le disposizioni sul da farsi gli sono state infatti consegnate in busta chiusa. Con l’ordine di prenderne visione solo quella mattina, al momento del loro arrivo in provincia di Arezzo. Sin dal 1974, Carluccio è stato impegnato nelle indagini sul crack dell’impero finanziario di Michele Sindona, banchiere legato alla mafia siciliana e protégé di Giulio Andreotti. Indagando sull’omicidio del commissario liquidatore della banca sindoniana, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, sul finto rapimento inscenato da Sindona per sottrarsi alla giustizia italiana e sulla fantomatica “lista dei 500” (un elenco di correntisti esportatori clandestini di capitali, tra cui – sembra – grossi nomi della politica e della finanza, che Sindona ha preservato dalla bancarotta), gli inquirenti si sono imbattuti più volte nel nome di Licio Gelli, imprenditore con molti interessi in America Latina, già dirigente della ditta di materassi Permaflex, con un passato da fervente fascista e poi doppiogiochista nella Seconda guerra mondiale, oggetto da qualche tempo di curiosità da parte della stampa.
L’intervista
I giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone lavorano sull’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli e sulla finta scomparsa del banchiere Michele Sindona quando, il 17 marzo 1981, la Guardia di Finanza arriva a Castiglion Fibocchi. Nell’ufficio di Licio Gelli viene trovato l’elenco degli iscritti alla loggia segreta Propaganda 2. 962 nomi, buona parte della classe dirigente italiana e dei servizi segreti. “Cinquemila fogli, passiamo due notti a fotocopiare ed autenticare quelle carte – ricorda Colombo nel 2015, alla morte di Licio Gelli – ma poi la Cassazione decise che il fascicolo doveva passare a Roma e in breve tempo arrivò l’archiviazione. Non è necessario pensar male, era un dato assolutamente scontato, allora, che non si potesse guardare in certi cassetti”. Intervista di Laura Pertici
Il nome di Gelli è affiorato anche in relazione all’omicidio del magistrato Vittorio Occorsio, nel ‘76. Sindona risulta legato a massoni e mafiosi. Gelli ha firmato una dichiarazione giurata in suo favore e con la fantomatica loggia P2, di cui è Gran Maestro, si impegna nella ricerca di soluzioni “politiche” alla bancarotta. In quel marzo dell’81, per i magistrati milanesi Turone e Colombo ce n’è dunque più che abbastanza per disporre una perquisizione di tutti i suoi indirizzi conosciuti. La maestosa Villa Wanda ad Arezzo, la suite dell’Hotel Excelsior dove si appoggia a Roma e la ditta di abbigliamento e confezioni Giole, parte del gruppo Lebole, con sede, appunto, a Castiglion Fibocchi: un indirizzo trovato proprio in un’agendina sequestrata a Sindona.
La Ritmo dei finanzieri è diretta lì. La perquisizione si svolge alla presenza della segretaria di Gelli, Carla Venturi. Nell’ufficio del suo capo, i finanzieri trovano una valigia contenente trentatré grosse buste, come se qualcuno si accingesse a portar via ciò che custodiscono. Il maresciallo Carluccio, leggendo i nomi sui plichi sigillati, ha una vertigine: “Gruppo Rizzoli”, editore del Corriere della Sera, “Tassan Din”, direttore generale del gruppo, “Rizzoli/Calvi”, Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, altro bancarottiere, considerato l’erede ideale di Sindona, “Contratto Eni-Petromin”.
Nella cassaforte dell’ufficio, i finanzieri trovano una sorta di registro, su cui sono annotati i nominativi degli iscritti alla P2. “Non potete portare fuori questa documentazione”, dice la Venturi, visibilmente alterata. “Le dico che il commendatore – Gelli – è un uomo potente, stia attento a quello che fa”. Lo dice più come un consiglio che come una minaccia, ma Carluccio e gli altri, d’intesa con il loro superiore, il colonnello Vincenzo Bianchi, e coi magistrati inquirenti, sequestrano tutto. Nel frattempo si è sparsa la voce della perquisizione. Il Comandante generale della Guardia di Finanza, Orazio Giannini telefona a Bianchi per avvertirlo che negli elenchi P2 troverà anche il suo nome.
Statti accorto – aggiunge – che ci sono i massimi vertici. Stai attento, che il Corpo si inabissa.
In effetti, quelle carte innescano uno scandalo senza precedenti. Ma non subito.

La lista
Da anni, girano voci e indiscrezioni sulla loggia di Gelli, ma nessuno può immaginare che coinvolga così tanti personaggi chiave della vita pubblica e di calibro così elevato. Nella lista, ci sono tre ministri in carica, il segretario nazionale del Partito socialdemocratico (Psdi), 24 generali e ammiragli delle tre armi, 9 generali dei Carabinieri, 5 generali della Finanza, un centinaio di ufficiali superiori, 5 prefetti, vari diplomatici, il capogruppo socialista alla Camera, parlamentari, il direttore del Corriere della Sera Franco Di Bella, l’editore Angelo Rizzoli e il suo direttore generale Bruno Tassan Din, alcuni noti giornalisti, dalla allora star televisiva Maurizio Costanzo a Roberto Gervaso. Tra gli affiliati, figura anche Mino Pecorelli, già direttore dell’agenzia O.P., per anni ben informato veicolo di messaggi trasversali e ricattatori, assassinato da mani ignote nel marzo del ’79.
Ci sono banchieri, in primis Sindona e Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, ma anche una ventina tra presidenti e direttori generali di istituti di credito locali, come Monte Paschi di Siena, Banco di Roma, Popolare dell’Etruria. Ci sono poi magistrati importanti. E, addirittura, il vice capo del Csm Ugo Zilletti (subentrato a Vittorio Bachelet, assassinato dai brigatisti nell’80). E poi dirigenti di società pubbliche, e 63 alti funzionari ministeriali, il cuore del deep State, lo “Stato profondo”, il luogo immateriale dove, lontano da occhi indiscreti, si prendono le decisioni che contano, muovendo fiumi di denaro pubblico. Negli anni in cui l’Italia è insanguinata dal terrorismo e dalle stragi, desta sconcerto scoprire che tutti i vertici dei servizi segreti in carica (anche durante il sequestro Moro) sono affiliati alla loggia di Gelli, come lo erano pure l’ex capo del Sid (il Servizio militare) Vito Miceli, l’ex capo del controspionaggio Gian Adelio Maletti, uno dei depistatori di piazza Fontana, e Federico Umberto D’Amato, già potentissimo dirigente dell’Ufficio Affari riservati del Ministero dell’Interno.
L’elenco dei nominativi appartenenti alla loggia P2 trasmesso dalla Commissione parlamentare d’inchiesta
Trasferita la documentazione a Milano con tanto di scorta, Colombo e Turone applicano ogni cura per scongiurare il rischio, e il sospetto, di manipolazioni. E fanno bene. Ancora oggi, infatti, si cerca di contestare l’autenticità di quelle carte, sebbene abbia trovato invece molteplici conferme (Turone e Colombo per esempio tracciano gli assegni con cui sono state pagate a Gelli le quote associative alla loggia). I due magistrati ritengono indispensabile avvertire le massime autorità dello Stato.
Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini è all’estero, dunque si rivolgono al premier, il democristiano Arnaldo Forlani. Convocati il 25 marzo, dopo ore d’anticamera e surreali disguidi, sono accolti a Palazzo Chigi dal prefetto Mario Semprini, capo di gabinetto e tessera P2 numero 1637. Forlani resta senza parole, letteralmente. Per alcuni, interminabili minuti, non è in grado articolare altro che suoni gutturali. Farfuglia, cerca di minimizzare, ma davanti a un documento sequestrato che porta la firma del suo Ministro di Grazia e Giustizia, Adolfo Sarti, deve arrendersi. Promette di esaminare la questione. In realtà, si limiterà a temporeggiare. Concedendo il tempo utile al “sistema P2” per scatenarsi.

Cominciano le pressioni. E, con loro, le allusioni minacciose. Il procuratore capo di Milano suggerisce di restituire a Gelli almeno i 33 plichi sigillati, poiché – argomenta – non è certo che contengano notizie di reato. Turone e Colombo, allibiti, lo ignorano. Da quelle buste scaturiscono numerosi filoni d’indagine, tra cui quello sul “conto Protezione”, creato presso una banca svizzera per far transitare 7 milioni di dollari di finanziamenti illeciti a beneficio dei socialisti di Bettino Craxi (condannato per questo negli anni Novanta). Solo rendendo pubbliche le liste si possono ostacolare ulteriori maneggi nell’ombra.
Ma Palazzo Chigi continua a tacere. Il 18 maggio, Gelli annuncia di aver chiesto a Forlani di mantenere il segreto sugli iscritti. Perché il gesto – avvisa – “potrebbe avere ripercussioni a livello internazionale”. E il premier, docile, dichiara che l’eventuale pubblicazione è nella potestà esclusiva dei magistrati, che vengono così messi in scacco. Se infatti decidessero di rendere noti gli elenchi, sarebbero accusati di violazione del segreto istruttorio. Sblocca la situazione il presidente della Commissione parlamentare sul caso Sindona, il socialista Francesco De Martino. Sarà la Commissione a pubblicarle, annuncia, mettendo all’angolo il governo. Alle 23.35 del 20 maggio 1981, l’ufficio stampa di Palazzo Chigi diffonde le 65 cartelle con nome, città e professione dei 962 affiliati. Il giorno dopo, il documento è sulle prime pagine di tutti i quotidiani.
Il terremoto che ne segue è di proporzioni mai viste. Il 26 maggio, Forlani rassegna le dimissioni aprendo la crisi di governo. Il 13 giugno, il piduista Di Bella lascia la direzione del Corriere della Sera. Dal 1977, infatti, la P2, sfruttando i debiti di Rizzoli, aveva preso (in modo occulto) il controllo del quotidiano di via Solferino, che attraversa la crisi più grave della sua storia, perdendo 100.000 copie e firme prestigiose come Enzo Biagi. Il 28 giugno 1981, si insedia il primo governo a guida non democristiana, Presidente del Consiglio il repubblicano Giovanni Spadolini. Ma la battaglia contro la piovra piduista è appena cominciata.
Troncare, sopire, negare
Il giorno prima della pubblicazione delle liste, Gelli aveva dettato la linea di condotta in un’intervista al Tempo col giornalista Franco Salomone (altro iscritto P2). In caso di interrogatorio su un’eventuale appartenenza alla P2, dice Gelli, “prima di tutto negherei”. Ed è a questa linea che gli iscritti alla loggia si attengono. Tranne rarissime eccezioni, gli affiliati negano, anche davanti all’evidenza, con grottesca ostinazione e sprezzo del ridicolo, come i tanti imputati eccellenti che, prima e dopo di loro, ripeteranno “non ricordo” o “a mia insaputa”. A dar loro man forte, del resto, sono l’inchiesta amministrativa preliminare disposta da Forlani e la commissione istituita dal ministero della Difesa per valutare le responsabilità dei militari, inclusi i vertici dei servizi segreti.
Le due inchieste giudicano infatti le liste inattendibili, prendendo per buona la parola degli interessati. I segretari dei principali partiti fanno come le tre scimmiette, ironizza il deputato radicale Massimo Teodori: “non vedo, non sento, non capisco”. Poi il colpo di grazia che deve soffocare l’inchiesta impedendole di andare sino in fondo: la procura di Roma solleva un conflitto di competenza per scippare l’inchiesta ai giudici milanesi, ipotizzando il reato, gravissimo, di cospirazione mediante associazione ai danni dello Stato, e il 2 settembre 1981 la Cassazione le dà ragione. Il collegio chiamato a decidere è presieduto da un giudice che, allo stesso tempo, difende un magistrato iscritto alla P2 in un procedimento disciplinare davanti al Csm. Appena Roma ottiene l’inchiesta, l’allarme, magicamente, si sgonfia, e l’inchiesta sulla P2 sprofonda in un limbo per anni.

Tuttavia, il 23 settembre 1981, dopo una lunga gestazione alle Camere, l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta “per accertare l’origine, la natura, l’organizzazione e la consistenza dell’associazione massonica denominata Loggia P2” pone un argine all’insabbiamento. La presidente della Camera Nilde Iotti chiama a presiederla Tina Anselmi. E lo fa con un abile colpo di mano: l’onorevole comunista teme infatti le possibili indicazioni del presidente del Senato Amintore Fanfani, vicino a Forlani, e spiazza tutti proponendo un’esponente democristiana, ma atipica. La Anselmi, come lei, ha combattuto nella Resistenza; si è fatta le ossa nelle battaglie sindacali nelle filande in Veneto, è stata la prima donna ministro.
La scelta, sostenuta con forza da Pertini, si rivela vincente. Difficile immaginare chi altri avrebbe potuto tenere testa con altrettanta determinazione alle pressioni inaudite di cui furono oggetto i lavori della commissione. Già nel giugno dell’82, per esempio, il segretario del Quirinale Antonio Maccanico registra, nei propri diari, le pressioni dal segretario della Dc Flaminio Piccoli perché la Commissione P2 sia “sbarricata”: Pertini “dovrebbe chiamare la Anselmi e dirle di concludere”. Figurarsi. Non è una sorpresa: quando Calvi fu arrestato, lo stesso Piccoli, insieme a Craxi, tuonò alla Camera che “il lavoro dei tribunali troppe volte sconfina dal diritto alla politica”.
Il sistema politico metabolizza lo scandalo con una rapidità inquietante. La permanenza a Palazzo Chigi di Spadolini (che si è opposto alla nomina del piduista Di Donna alla presidenza dell’Eni e, attraverso il ministro Andreatta, a un accomodamento del crack Ambrosiano con soldi pubblici) è breve. Nell’agosto 1983 si insedia infatti il primo governo Craxi. E il suo vicepresidente è Forlani, il “temporeggiatore” del 1981, mentre il segretario del Psdi Pietro Longo (iscritto alla P2) è ministro del Bilancio, il socialista Silvano Labriola (iscritto alla P2) presiede la commissione Affari costituzionali della Camera. Con un decreto ad hoc, Craxi salva il nascente impero televisivo privato dell’imprenditore Silvio Berlusconi, tessera P2 n. 1816 (Gelli, d’altra parte, era stato un convinto sostenitore dell’importanza di “rompere il monopolio della tv di Stato”).

per l’iscrizione di Silvio Berlusconi
alla loggia massonica P2
Intanto, a due anni esatti dalla scoperta delle liste, il 17 marzo 1983, il giudice istruttore Ernesto Cudillo del tribunale di Roma conclude l’inchiesta sulla P2 con una sentenza di proscioglimento generale. Rimozione e insabbiamento continuano a riproporsi nei decenni successivi, fino a oggi: un corpo a corpo estenuante tra denunce, rivelazioni, inchieste, da una parte, e un sistema gelatinoso, dall’altro, che sembra assorbire tutto senza scossoni, o quasi. Perché la democrazia è una fatica che non concede riposo né facili consolazioni. Che è poi la stella polare che continuerà a guidare il lavoro della commissione Anselmi.
Le conclusioni della Commissione Anselmi
Nonostante gli attacchi e le difficoltà, nell’arco di tre anni la Commissione P2 svolge un lavoro di approfondimento ampio e rigoroso. La relazione conclusiva, approvata a maggioranza, presentata alle Camere il 12 luglio 1984, fissa alcuni punti fermi. Accerta, innanzitutto, l’autenticità delle liste, in base a un gran numero di riscontri, documentali e testimoniali. Gli elenchi, tuttavia, sono incompleti. La Commissione ipotizza l’esistenza di una “piramide rovesciata” al di sopra del vertice. In molti, negli anni, hanno indicato Andreotti come il vero capo nell’ombra, il potente Belzebù dietro Gelli-Belfagor, per dirla con la provocatoria metafora di Craxi.

La Commissione documenta inoltre i rapporti della Loggia “con ambienti e situazioni fuori dalla legalità”. Il terrorismo nero, innanzitutto: Gelli e la P2, per esempio, sono stati il retroterra politico, economico e morale della strage sul treno Italicus del 1974. In parallelo, le indagini avviate nel 1984 sul nocciolo piduista interno al Sismi portano a condanne definitive per il depistaggio della strage di Bologna per Gelli, gli ufficiali Sismi Pietro Musumeci (P2) e Giuseppe Belmonte (massone ma non P2) e il potente faccendiere Francesco Pazienza, legato a Gelli, al capo piduista del Sismi e a figure chiave dell’amministrazione americana di Ronald Reagan. Non bisogna farsi ingannare dal côté grottesco di Gelli e tanti suoi pittoreschi comprimari. La P2 ha realizzato “una ragionata e massiccia infiltrazione dei centri decisionali di maggior rilievo, sia civili che militari”, in un disegno occulto di potere concepito per svuotare la democrazia dall’interno, fino a renderla un simulacro.
Fino al 1974, la loggia flirta con ipotesi golpiste (anni dopo viene ricostruito il coinvolgimento di Gelli nel tentato golpe Borghese del 1970). Nella seconda metà del decennio, la P2 conosce una crescita impetuosa e opta per un disegno politico più raffinato, di segno anticomunista, filo-atlantico e presidenzialista, compendiato nel “Piano di Rinascita Democratica” risalente al 1975-’76 (sequestrato il 4 luglio 1981 a Fiumicino a Maria Grazia Gelli, figlia del Venerabile, insieme ad altri documenti nascosti nella fodera di una valigia). Negli anni della Guerra fredda, il Pci (che arriva a rappresentare un terzo degli elettori) non può andare al governo, ma solo esercitare la propria influenza attraverso il Parlamento: l’introduzione del presidenzialismo avrebbe dunque una coloritura antidemocratica.
Dall’affermazione del centro sinistra alla “solidarietà nazionale” tra Dc e Pci (a cui la P2 era fieramente avversa), l’Italia conosce un progressivo spostamento a sinistra dell’asse politico e della società e l’approvazione di riforme di eccezionale rilievo, un aspetto della storia purtroppo troppo spesso oscurato dal deflagrare della violenza terroristica. L’ispiratore principale di questo travagliato percorso fu Aldo Moro, che coltivò tutta la vita una visione progressiva e inclusiva della democrazia, il cui scopo era una sempre più ampia integrazione delle masse popolari nelle istituzioni, con la mediazione dei grandi partiti. La P2 teorizza e sostiene una strategia di segno opposto.
I protagonisti
Chi ha paura dei massoni?
La relazione Anselmi ricostruisce l’ascesa di Gelli dentro il Grande Oriente d’Italia (GOI), la principale obbedienza massonica italiana, dentro cui riuscì a incistarsi profondamente con i soliti metodi ricattatori, approfittando poi del prestigio e della protezione dell’antica istituzione. Centra il punto Umberto Eco nel racconto comico Quando entrai nella PP2: “Naturalmente usiamo un fratello della loggia coperta, ma travestito da massone scoperto, di quelli che posso girare liberamente col cappuccio”, faceva dire a un sussiegoso e molto poco immaginario Gelli Licio: “Capito la trovata? Chi va a guardare sotto il cappuccio a un fratello?”.
L’odore di zolfo dello scandalo P2 resta appiccicato alla massoneria in generale. I “fratelli” reagiscono con sdegno quando la loro istituzione è associata a fenomeni criminali. Occorre però chiedersi che senso abbia un’associazione segreta come la massoneria in una società aperta. Per le sue caratteristiche, infatti, resta un potenziale nascondiglio e luogo ideale per influenze illecite. Dietro a un processo apparentemente democratico, la “fratellanza” può consentire di privilegiare ingiustamente una persona o un’impresa rispetto a un’altra. Aggirare o piegare le regole della concorrenza e del mercato. Sostituire l’obbedienza al merito.

Tra i punti di forza della P2, era proprio la capacità di garantire agli affiliati favori, nomine, promozioni, concessioni di credito o di bloccarle. Sfruttava la lusinga e l’ambizione personale tanto quanto la paura del ricatto. Da non sottovalutare nemmeno il rischio e le implicazioni del caratteristico vincolo “all’obbedienza”, laddove il “fratello” ricopra incarichi di responsabilità e debba prendere decisioni importanti, magari in un’indagine, nello svolgimento di un processo, in una nomina, in un arbitrato. Per questo continua a destare mormorii allarmati la presenza della massoneria in settori come quello bancario e finanziario. Fiammetta Borsellino ha puntato il dito contro la “procura massonica” di Caltanissetta. Logge più o meno coperte e irregolari sono state coinvolte in importanti inchieste di mafia e ‘ndrangheta. Nel settembre 2014, sul Corriere, Ferruccio De Bortoli evocava “uno stantio odore di massoneria” dietro il molto discusso “Patto del Nazareno” e il governo di Matteo Renzi, un fumus massonico evocato in modo goliardico anche dal comico Maurizio Crozza in uno sketch sul senatore toscano Denis Verdini, ex berlusconiano alleatosi con Renzi, a suon di battute su brioches e “cappucci” alla buvette.
Cherchez la femme
La P2 è una storia di uomini, un verminaio di “intrecci e legami trasversali di ambienti squisitamente maschili”, ha scritto Dacia Maraini: l’ambiente massone e quello politico, militare e dei servizi segreti, quello della criminalità organizzata e del potere finanziario, delle banche e del Vaticano, “una miscela esplosiva di arroganza e supponenza”. Le poche comprimarie hanno ruoli ancillari. Dalla fedele segretaria Carla Venturi, alla figlia del Venerabile, Maria Grazia, che davanti alla Commissione P2 non solo nega, secondo le istruzioni di papà, ma si produce in una serie di luoghi comuni patriarcali. “La curiosità è femmina”, dice, per giustificare l’aver sbirciato i documenti del babbo, i quali, aggiunge, “se fossero state cose importanti, non le avrebbe date a una figlia”. Fino agli irresistibili consigli da donna Letizia per nascondere documenti scottanti nel doppiofondo di una borsa: “ho tagliato le fodere (della valigia, ndr) con un orecchino e poi – sono una donna, quindi porto sempre dietro ago e filo – ho ricucito dopo aver infilato queste buste”, et voilà.
Probabilmente quindi non è un caso se, in questa storia tutta maschile, la Nemesi ha un volto di donna: quello di Tina Anselmi, innanzitutto, ma non solo. Lia Bronzi Donati, per esempio, gran Maestra della loggia tradizionale femminile, tra le pochissime donne di potere nella massoneria, testimonia per l’accusa al processo per la strage di Bologna. Ha parole di fuoco per Gelli e il Gran Maestro Lino Salvini, e riferisce di aver saputo che anche Andreotti era un affiliato. A Bologna, depone anche Nara Lazzerini, una levigata signora pisana di mezz’età dall’aria svagata che è stata amante di Gelli, nientemeno, e dopo l’abbandono da parte di lui (causa latitanza) racconta col sorriso di tutti i potenti che ha visto passare per la suite dell’Hotel Excelsior, recando in dote pure un diario.
Nara Lazzerini, segretaria particolare di Licio Gelli dal 1977 e compagna del Tenente Colonnello Vito Alecci, iscritto alla P2 e successivamente morto in circostanze misteriose, racconta a Enzo Biagi la sua vita con il capo della Loggia P2. Tratto da Licio Gelli: Io lo conosco bene di Enzo Biagi, ©AccasFilm
E infine Elisabetta Cesqui, la pm a cui, dal 1985, tocca riprendere in mano le indagini penali su molte figure chiave della P2, Gelli in testa, per cospirazione politica e attentato alla Costituzione. C’è stato infatti un colpo di scena: nell’83, la Procura generale capitolina aveva impugnato la sentenza di proscioglimento di Cudillo riaprendo il caso. Cesqui affronta il compito con una determinazione pari a quella di Tina Anselmi, praticamente da sola. Anche il suo lavoro viene ostacolato da intimidazioni e attacchi, come l’indagine a suo carico basata sulla denuncia di un piduista, che si trascina per due anni, prima che ne venga riconosciuta la totale infondatezza.
Dopo sei anni d’indagini, il processo contro i vertici della P2 si apre a Roma nel 1992. Nel 1994, la sentenza di primo grado assolve tutti gli imputati dalle accuse principali, Gelli è condannato solo per reati minori (calunnia, millantato credito, procacciamento di notizie destinate a rimanere segrete nell’interesse della sicurezza dello Stato), poi prescritte. La proverbiale montagna che partorisce il topolino? In sede giudiziaria senz’altro, ma le indagini svolte da Cesqui aiutano a capire meglio il fenomeno P2.

Dossier, bobine e miliardi
Con la pubblicazione delle liste, diventa evidente il legame strettissimo tra P2 e servizi segreti. In realtà, la stessa P2, osserva Cesqui, era assimilabile per molti aspetti a un “servizio parallelo”, per l’assoluta centralità assegnata all’informazione come strumento di influenza, controllo e, soprattutto, ricatto. “Gelli mi diceva che tutte le persone che passavano dalle stanze del suo appartamento al primo piano dell’Excelsior venivano filmate e le conversazioni registrate”, racconta Nara Lazzerini. “Mi diceva che questa era la sua forza”. Il materassaio massone “ha perfezionato e diffuso la pratica della fotocopia e della bobina”, scrisse il giornalista Gianfranco Piazzesi. Non che fosse una sua invenzione, sia chiaro, ma “l’uso strumentale dei documenti e delle registrazioni sono diventate, dopo di lui, arma quasi quotidiana della lotta politica”. Anche se l’“arsenale” principale del Venerabile non è mai stato recuperato per intero.
Il 28 maggio ’81, una settimana dopo la pubblicazione delle liste, in Uruguay la polizia locale fa irruzione nella residenza di Gelli a Carrasco, nei pressi di Montevideo, e sequestra, in una stanza occultata da una finta parete, il grande archivio che il Venerabile aveva trasferito oltreoceano nel 1978. Si tratta di oltre 500 dossier. Tra gli intestatari, tutti i vertici dei servizi, il presidente Leone, Andreotti, Moro, Berlinguer, Piccoli, Nenni, Craxi, De Michelis, Colombo, Evangelisti, Fanfani, Cossiga… Poco dopo, il nuovo capo del Sismi, il generale Ninetto Lugaresi, avvia la cosiddetta “operazione Minareto” per cercare di riportarli in Italia; guarda caso, alcuni democristiani e socialisti chiedono al Quirinale anche la sua testa, oltre a quella della Anselmi, e si muove pure la Cia, preoccupata che Gelli disponga di documenti riservati Nato.

Nella seconda metà del 1982 arriva, a singhiozzo, meno di un terzo dei fascicoli. Tra questi rispuntano addirittura alcuni dossier illegali del Sifar – il primo grande scandalo dell’intelligence repubblicana, alla fine degli anni Sessanta – che in teoria avrebbero dovuto essere inceneriti nel 1974, sotto la responsabilità del Ministro della Difesa Andreotti. L’esecutivo italiano riapre le trattative per ottenere il resto dell’archivio nel 1985, ma il governo civile succeduto alla dittatura militare a Montevideo non ne trova traccia. Poi, silenzio.
Il grosso dell’archivio uruguaiano non s’è mai trovato, come la famigerata “lista dei 500” di Sindona, il manoscritto integrale di Moro nella prigione brigatista e molto altro. Il gomitolo dei ricatti si avviluppa su se stesso, sigillando segreti destinati a marcire sotto la pelle del Paese. Accanto al ricatto, il “sistema P2” fa leva sulla corruzione, sistematica e pervasiva. In un Memorandum sulla situazione politica italiana si calcola che “con l’attuale sistema di tesseramento della Dc” circa dieci miliardi sarebbe sufficienti “per acquistare il partito” e con altri 5-10 miliardi si potrebbe spezzare l’unità sindacale, “la peggiore nemica della democrazia sostanziale che si vuole restaurare”.

Nel Piano di Rinascita democratica si precisa che “la disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere agli uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave” necessarie al controllo di partiti politici, stampa e sindacati. Ma i soldi per corrompere da qualche parte bisogna prenderli. Fitti intrecci finanziari, nazionali e internazionali, legano la P2 e Cosa Nostra, mentre l’infiltrazione massonico-piduista delle Fiamme Gialle, oltre a proteggere questi rapporti illegali, consente ingenti frodi fiscali. E poi c’è il Banco Ambrosiano. Molte carte sequestrate il 17 marzo ‘81 entrano nel processo per la bancarotta della principale banca privata italiana, una voragine da un miliardo di dollari a cui la P2 contribuì non poco (anche se fu lo Ior a fare la parte del leone). Documentano infatti una stretta collaborazione tra Gelli e Roberto Calvi presidente del Banco in operazioni riservate.
Una commissione parlamentare d’inchiesta istituita in Inghilterra per indagare i rapporti tra city police londinese e massoneria (analoga alla nostra Commissione P2) ha accertato interferenze massoniche nelle indagini britanniche sulla morte di Calvi, trovato impiccato al Blackfriars Bridge di Londra il 18 giugno 1982. Lo stesso banchiere aveva dichiarato che “per essere qualcuno nella City a Londra” bisognava essere affiliati a una loggia: certe patologie del potere, insomma, non sono solo italiane. Le inchieste sulla sua morte non hanno raggiunto conclusioni definitive, ma hanno escluso il suicidio. Nell’inchiesta sul crack dell’Ambrosiano, accanto a Gelli spicca più nitida la figura del comprimario Umberto Ortolani. Avvocato e imprenditore con ottime entrature in Vaticano, proprietario del Banco Financiero Sudamericano (Bafisud) di Montevideo, discreto quanto Gelli era istrionico, era il “tecnico” esperto di manovre bancarie e finanziarie internazionali, mentre il compare teneva le fila dei rapporti col mondo politico ed economico.

a Londra, sotto al quale Roberto Calvi
fu trovato impiccato
Il processo accerta “l’esistenza di un piano criminoso che dietro il paravento del risanamento del gruppo Rizzoli prevedeva, come finalità preponderante, l’arricchimento dei suoi promotori ed attuatori”, Ortolani, Gelli e Tassan Din. Innanzitutto, “mediante la spartizione del denaro proveniente dalle casse del Banco Ambrosiano” scrive la Corte d’Assise di Milano: “una vera e propria attività di distrazione e spoliazione”, mediante un flusso di ingenti trasferimenti transitati sui conti della società panamense Bellatrix per poi disseminarsi in una molteplicità di conti esteri.
Il processo si conclude nel 1998, confermando condanne pesanti a carico dei principali imputati: 12 anni a Gelli e Ortolani, 8 ai brasseur d’affaires Flavio Carboni, a cui Calvi si era affidato negli ultimi mesi della sia vita, e Francesco Pazienza, già condannato come depistatore della strage di Bologna (Tassan Din aveva patteggiato 8 anni). E i geroglifici relativi ai traffici di denaro da e verso conti cifrati, annotati sul cosiddetto “documento Bologna”, trovato addosso al Venerabile al momento dell’arresto a Ginevra, si trovano al centro della più recente indagine sulla strage del 2 agosto, che ha ricondotto parte di quei cospicui traffici di denari al finanziamento della bomba alla stazione. Il processo romano alla P2 concludeva che la loggia fu in prevalenza un “comitato d’affari”, per sminuirne la valenza politica. In realtà, il denaro era necessario non solo per l’arricchimento personale, ma a manovre corruttive destinate ad aumentare il potere e l’influenza politica. La P2 è stato un prototipo di tutti quei sistemi di potere occulti che rubano per comandare e comandano per rubare.

Ieri, oggi, domani: la persistenza del sistema P2
Carlo Azeglio Ciampi, in una delle ultime interviste, avvertiva che “in Italia non si è mai data sufficiente importanza a cosa è stata la P2, ma Villa Wanda è ancora aperta e il titolare è ancora lì, vivo e vegeto – Licio Gelli sarebbe scomparso nel dicembre 2015 – e molti degli aderenti a quella loggia massonica […] sono ancora in circolazione. La stagione della P2 non è mai finita, ha continuato ad agire sotto traccia, continuando a inquinare le istituzioni italiane. Il fatto di non aver estirpato fino in fondo questo cancro è un grande cruccio”.
Il presidente emerito era stato premier nella stagione torbida del 1993, tra il ritorno delle bombe (attentati in cui molti segnali simbolici rimandano alla massoneria) e oscure manovre destabilizzanti intorno a Palazzo Chigi e al Quirinale. Nell’inchiesta sulla cosiddetta P3, partita da un’indagine per corruzione per procacciarsi cospicui appalti nel settore eolico, ricomparve nientemeno che l’imprenditore Flavio Carboni (il faccendiere a cui si era affidato Calvi, poi processato per la morte del banchiere). A tessere le fila della cosiddetta P4 ricompare invece Luigi Bisignani, “l’uomo che sussurrava ai potenti”, secondo il titolo sussiegoso del suo memoir, in gioventù brillante giornalista affiliato alla P2. Ancor più dei nomi tornano i meccanismi, i metodi di gestione ufficiosa del potere, sempre dietro le quinte, attraverso relazioni, corruzione, ricatti.

Nel 2013, Ezio Mauro descriveva l’arcipelago di affari e influenze in cui si muoveva Bisignani come
un blocco di potere in qualche modo eterno, perché è annidato sui muri del palazzo, come le ragnatele, si estende sopra il sistema di potere apparente.
La sua esistenza è un segreto di Pulcinella per chi ha occupato o frequentato da vicino i centri decisionali della politica, della finanza e dell’informazione. Si organizza in modo tale da passare attraverso le maglie della legge, sfuggente, invisibile, indimostrabile. La più grande beffa del Diavolo, d’altro canto, è convincere il mondo che il Diavolo non esiste. Un potere che collega mondi apparentemente estranei, lontano da sguardi indiscreti, come il “mondo di mezzo” di Massimo Carminati, ex Nar e Banda della Magliana (due soggetti criminali la cui storia interseca spesso quella della P2), “in cui tutti s’incontrano”, perché “anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno nel sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno”.
Una cerniera tra legalità e illegalità o un “network di potere illecito”, una categoria usata per analizzare in modo efficace anche la loggia P2. Gustavo Zagrebelsky ha parlato di una sorta di “piduismo perenne”, ovvero “l’affermazione di una gerarchia pervertita e brutale di fattori della vita sociale”, che si manifesta nel ridimensionamento della sfera pubblica dello Stato a vantaggio di gruppi privati, crocevia di interessi, talvolta criminali, sempre segreti. Un pervertimento nel quale i più deboli hanno tutto da perdere. Insomma, è tutto fuorché storia passata.

di Concita De Gregorio
Era un martedì di settembre del 2003, diciotto anni fa. Cielo limpido, temperatura mite, Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio. Fabrizio Cicchitto, anche lui ex socialista, appena nominato ai vertici di Forza Italia. Temi del dibattito politico, in quelle settimane: la riforma del sistema tv e della giustizia. Due dei punti cardine del Piano di Rinascita. Berlusconi e Cicchitto erano stati entrambi affiliati alla Loggia P2. Licio Gelli aveva 84 anni, quel giorno di settembre, e scriveva poesie. Vinceva molti premi, gli amici lo avevano candidato al Nobel per la letteratura. Mi aveva risposto al telefono una sola volta, dicendomi che purtroppo le sue liste di attesa erano sature. Da allora, il numero aveva squillato a vuoto. Partii in macchina verso Castiglion Fibocchi, non fu difficile trovare Villa Wanda: non c’erano i navigatori satellitari, ma tutti nelle campagne attorno ad Arezzo sapevano indicare dove fosse. Cancello di ferro battuto, nome della villa in caratteri dorati, citofono vecchio stile: tondo, un semplice pulsante di metallo. Due telecamere puntate sul viandante.
Attraversato un giardino abitato da putti mostri di pietra e veneri ignude coperte di muschi mi venne incontro una corpulenta governante in divisa. Ha un appuntamento? No. Aspetti qui. Sala d’attesa al piano terra, due elefanti di porcellana, cuccioli, grandezza naturale. Alle pareti icone russe, pupi siciliani, sul tavolo di vetro un telefono rosso e un vassoio d’argento pieni di caramelle al limone. Il Venerabile comparve da una porta a scomparsa, mimetizzata dalla seta damascata alle pareti. Era lusingato della visita, così disse. Mai fece cenno al fatto che fosse inattesa, al contrario: volle dare l’impressione di aver depennato per me ogni altro impegno. Salendo per labirinti di scale a chiocciola e dedali di corridoi mi guidò in una visita della magione, portandomi in primo luogo a visitare l’impressionante archivio: una sorta di biblioteca piena non di libri, solo di faldoni, che si poteva ammirare dall’alto, affacciati alla balaustra del ponte sospeso di passaggio fra il suo studio e uno dei non saprei dire quanti soggiorni.
Mi parlò dapprima del padre di Massimo D’Alema, chiedendomi se lo conoscessi. Dovette sembrargli una cortesia per mettermi a mio agio: era un suo caro amico e ne aveva molta stima, disse. Dubitai e chiesi dettagli, nell’inutile tentativo di metterlo a disagio. Mi chiese notizie del mio editore. Ne avevo di generiche, me ne dette in cambio copiose e dettagliate di sue. Seguì un monologo di quasi un’ora in cui fece sfoggio della sua arma più potente: la memoria. Era in grado di ricordare, ritrovo negli appunti, l’indirizzo completo di numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, i nomi dei figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide coinvolto uno dei tre, il numero di conto corrente su cui fece quel certo bonifico sessant’anni fa, la targa della camionetta di quando era ufficiale di collegamento col comando nazista, come si chiamava il segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti del piano R, che macchina guidava, se a Roma c’era il sole quella mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli disse, cosa quello rispose.
Trasferiti nel suo minuscolo studiolo mi disse, sotto lo sguardo incorniciato d’avorio della moglie, che Mani pulite era stata solo una faccenda di corna. Che la corruzione era oggi peggiore di allora: prima si prendeva il 3 per cento, ora il 10. Disse che lui non aveva mai fatto niente di illegale – “Sono stato assolto da tutto” – e passò a fare piccoli cammei di Andreotti (“se fosse un’azione sul mercato mondiale avrebbe migliaia di compratori”) di Fini (“lo vedo, povero caro, un po’ appannato”) di Berlusconi (“un uomo fuori dal comune, realizza quel che vuole”) di Cossiga (“un animo limpido, conversa in tedesco”). Parlò di Moro, di Maurizio Costanzo, di Gianni Agnelli e di Giovanni Leone. Di tutti guardando un punto nella parete, come se li vedesse proiettati sul muro. Quattro ore dopo, mi congedò raccomandandomi di guidare piano col buio. Ero ferma alla piazzola di sosta di Badia al Pino, sull’autostrada A1, quando squillò il cellulare. Voleva chiedermi discrezione, tardivamente accertarsi che non avrei fatto parola delle sue parole. Ma lo disse senza convinzione, debolmente. In realtà, quel che voleva era solo chiamarmi. Lo faceva a un numero diverso da quello che gli avevo lasciato. Squillò il mio privato, noto solo alla famiglia. Come fa ad avere questo numero? domandai. “Ma signora”, rispose indulgentissimo, e in coda a un barocco commiato riagganciò.
Sorgente: P2: la loggia massonica e Licio Gelli a 40 anni dalla scoperta dei nomi | Rep
Qualche nome probabilmente fu stralciato dall’elenco, oppure esisteva qualche altra lista ancora più segreta, non per caso l’on. Tina Anselmi disse: se è esistita una P2, forse ci sarà anche una P3 o una P4! Oggi si sa che la strage di Bologna fu commissionata ai fascisti dei NAR, prezzolati da Gelli e Ortolani, ma mi rammento che Cossiga da presidente della Repubblica dichiarò alla TV che la bomba era scoppiata accidentalmente a dei palestinesi dell’OLP appartenenti a Settembre Nero che grazie al Lodo Moro, avevano libero accesso con armi ed esplosivi sul territorio nazionale. Il suo intervento non fu altro che un palese tentativo di depistaggio, forse perché aveva tutto l’interesse che non si scoprissero mandanti e attentatori. Per come si comportò poi da ministro dell’interno durante il sequestro Moro esistono altre ombre sulla sua figura. Mi riferisco alla testimonianza di un nostro agente dei servizi il quale dichiarò al processo che si fece una foto aerea e per ingrandire i particolari, gli acidi per lo sviluppo vennero distesi in una stanza, e si vide chiaramente l’on. Moro passeggiare in un cortile e in via Montalcini non esisteva nessun cortile. Lo foto fu data a Cossiga e non se ne seppe più nulla.