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Il lavoro e il sacrificio di migliaia di medici e infermieri è stato troppo spesso vanificato dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. A noi non resta che piangere i personaggi pubblici e l’esercito degli sconosciuti. Forse servirà per loro un luogo del ricordo

di Aldo Cazzullo

«Una morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica». Autentica o apocrifa — come quasi tutte le frasi storiche — che sia, la cinica affermazione attribuita a Stalin andrebbe rovesciata. Centomila morti sono centomila tragedie. Di fronte a qualcosa di totalmente inatteso e inedito come una pandemia — almeno nell’arco delle nostre vite —, noi italiani abbiamo reagito a volte in modi opposti. A lungo è prevalsa una tendenza a sottovalutare, a sminuire, se non proprio a negare.

Si è partiti con le buone intenzioni: la vita continua, Milano non si ferma. Qualcuno ha proseguito senza sprezzo della verità e del ridicolo, per poi essere costretto dalla realtà a fare marcia indietro. Altri si ostinano tuttora a fare come se nulla fosse, ad esempio a riunirsi fuori dagli stadi per sostenere la propria squadra che gioca a porte chiuse: tutti hanno visto le immagini di San Siro e di Bergamo, ma la pratica si diffonde pure in provincia. È una reazione umana, tentare di mantenere le antiche abitudini; ma alla lunga c’è qualcosa di diabolico in questo perseverare, che è pure una mancanza di rispetto per le vittime e le loro famiglie. Troppe volte abbiamo sentito mormorare che «tanto avevano quasi tutti più di ottant’anni»; come se le vite degli anziani valessero meno, come se il dolore di chi resta non fosse altrettanto straziante. L’altro giorno poi è arrivata la sentenza dell’Istat: l’Italia non ha mai avuto tanti morti — 700 mila — in un anno di pace; dall’inizio della pandemia, si contano 108 mila morti in più rispetto alla media; la drammatica contabilità, purtroppo, coincide con i dati Covid.

 

Ma in questi mesi è emersa anche un’altra tendenza. La potremmo chiamare del bollettino di guerra. Anziché lavorare seriamente su mascherine e vaccini, ci si è inoltrati in metafore belliche e confronti con i numeri dei conflitti del secolo scorso; e in effetti centomila morti sono più delle vittime dei bombardamenti, più dei caduti della ritirata di Caporetto, più degli alpini dispersi in Russia. Ma neppure questo approccio è giusto. La guerra quella vera, con le scelte disastrose del potere politico, con i ventenni mandati al fronte senza equipaggiamento adeguato, con i civili esposti ai raid terroristici del nemico, con la fame e i razionamenti, è un’altra cosa.

Ogni generazione, però, ha la sua guerra da combattere, la sua prova della vita. Che richiede sia un imponente lavoro logistico e organizzativo, sia una dimostrazione di forza morale. Perché la prova della vita deve essere il punto alto, non il punto basso del nostro ciclo. Centomila morti rappresentano un bilancio spaventoso. La conferma che purtroppo non è andato tutto bene, come ci dicevamo l’un l’altro all’inizio. Il lavoro e il sacrificio di migliaia di medici e infermieri (e un prezzo particolarmente alto lo hanno pagato le donne) è stato troppo spesso vanificato dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. E, come sempre con le inchieste giudiziarie, c’è il rischio che le responsabilità non vengano accertate e sanzionate come sarebbe doveroso.

A noi non resta che piangere i morti. Personaggi pubblici: Vittorio Gregotti, l’architetto che ha cambiato il nostro modo di pensare le città; Germano Celant, il critico che ha inventato l’arte povera, fatta con i materiali della natura e dell’industria; Lea Vergine, la critica, che se ne è andata poche ore dopo il marito Enzo Mari, il designer; Giulio Giorello, il filosofo che vivrà ancora a lungo nei suoi libri; Franco Marini, il sindacalista che commemorò le vittime della strage di Bologna (e il politico abbandonato dai suoi quando aveva già ritirato il vestito per giurare da presidente della Repubblica); Carlo Tognoli, il sindaco più amato dai milanesi. E poi l’esercito degli sconosciuti, il cui nome dice poco a ognuno di noi, ma rappresenta tutto per coloro che li hanno amati.

È necessario ricordare almeno il primo: Adriano Trevisan, 77 anni, agricoltore di Vo’ Euganeo. Ed è necessario ricordare le parole con cui sua figlia Vanessa l’ha salutato: «Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vittima italiana del coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Adriano Trevisan è il mio papà. È il papà dei miei fratelli Vladimiro e Angelo. È il marito di mia madre Linda. È il nonno di Nicole e di Leonardo». Poi sono venuti giorni terribili, in cui i morti arrivavano quasi a mille, ed era difficile contarli, figurarsi raccontarli. Giorni duri che non sono ancora finiti. Non sapremo mai con esattezza quanti malati sono morti di Covid, e quanti con il Covid. È probabile che qualcuno di loro non ce l’avrebbe fatta comunque. È probabile che molti siano stati spenti dal coronavirus e non risultino nella statistica, perché il male non è stato loro diagnosticato. Lasciamo queste distinzioni ai riduzionisti e agli apocalittici, che ne trarranno ulteriori argomenti per le loro tesi. E proviamo a chiederci cosa ci lascia questa esperienza.

La morte noi non l’avevamo vinta; l’avevamo rimossa. Un tempo si moriva in casa, circondati dagli affetti. C’erano morti sin troppo affollate, come quella che si vede nel film di Giuseppe Tornatore «Baarìa», con i compaesani che affidano al morente i messaggi per i loro antenati nell’Aldilà. Oggi non soltanto le vittime del Covid se ne sono andate da sole, senza il sostegno dei familiari, spesso senza i conforti religiosi, una benedizione, una parola dolce. Non soltanto ci sono stati figli che hanno saputo della scomparsa dei genitori dopo giorni, hanno scoperto che erano stati cremati a centinaia di chilometri da casa, hanno ricevuto la notizia poche ore dopo essere stati rassicurati: «Suo padre sta meglio». Più in generale, siamo talmente avvezzi a negare la morte, a occultarla, a esorcizzarla relegandola nelle immagini terrificanti o grottesche o consolatorie delle fiction, che ritrovarcela così in faccia, minacciosa, spietata, ci ha inevitabilmente cambiati. Il tempo ci dirà come. Se la pandemia ci ha resi solo più guardinghi o anche più profondi. Se ci ha ulteriormente chiusi ai rapporti con gli altri, o ci ha insegnato a misurarne il valore, a selezionarli, a tenerli da conto. Se ci ha solo spaventati, o ci ha aiutati a riflettere su quel che abbiamo fatto sinora e su quel che ci attende, qui e oltre.

Questo nel frattempo possiamo, anzi dobbiamo fare: ricordare. Sottrarre all’oblio Roberto Stella, il presidente dell’Ordine dei medici di Varese, e Claudio Polzoni, il carabiniere che rispondeva al 112 di Bergamo. Angelo Rottoli, l’ex pugile detto Alì come il campione mondiale dei massimi, e la signora Terry mamma dei gemelli Filippini, i calciatori bresciani. Don Fausto Resmini, il prete degli ultimi, che assisteva i poveri e visitava le carceri, uno degli oltre trenta sacerdoti bergamaschi morti di Covid, e Manuela Andreoli, l’insegnante di Padova che il virus l’ha contratto in classe. Giuseppe Manfri, il poliziotto morto in servizio a 41 anni ad Avellino, e Michelina Petretta, l’infermiera del Cardarelli di Napoli. Forse servirà per loro un luogo del ricordo. Non un monumento; una semplice lastra con i loro nomi, come quella che a Washington commemora i caduti in Vietnam, o come quella — proposta da Mario Calabresi e mai realizzata — che dovrebbe onorare le vittime del terrorismo.

Un nome non è mai casuale. Un nome è tutto. Un nome è anche un conforto, per chi ha perso il proprio caro senza poterlo vedere e salutare. Quei centomila morti sono altrettanti dolori privati; ma tutti insieme sono un grande dolore pubblico, un grande lutto nazionale. Ed è dal dolore e dal ricordo, più che dalla gloria e dalle vittorie, che una nazione culturale e sentimentale (più che politica) come l’Italia è unita.

Sorgente: I morti per Covid in Italia: 100, il lutto di una nazione- Corriere.it

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