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Al voto. Siamo alla messa in scena dei testa-coda di politici e partiti: prima il via libera alla riforma, poi il pentimento. Ma forse è solo una partita nel gioco del potere

Norma Rangeri

Oggi e domani il paese voterà per approvare o bocciare la riduzione dei parlamentari da 945 a 600 e per scegliere chi dovrà amministrare 7 regioni e centinaia di comuni. Un voto referendario e un voto amministrativo: due appuntamenti elettorali che non potrebbero essere più diversi tra di loro. E riunirli in un unico election-day è stato un errore, uno scivolone istituzionale. Ma le urne si aprono e dobbiamo scegliere, avendo a disposizione una sola scheda (referendum), due (referendum più voto regionale), e perfino tre nei circa mille comuni che devono rinnovare i consigli amministrativi.

SUL REFERENDUM si è sviluppata una crescente mobilitazione e impegno per il No, espressione della società civile, movimenti, associazioni nella quale il manifesto – che insiste per un «No critico» – si riconosce. È stata una reazione forte contro chi, con le forbici brandite in piazza Montecitorio, festeggiava la riduzione dei parlamentari («il taglio delle poltrone»). Uno spettacolo indecoroso che ha alimentato una reazione in difesa della democrazia rappresentativa, contro chi vorrebbe ridurre il Parlamento ad una scatoletta di tonno, da impacchettare al discount della Repubblica (la riduzione dei costi), già di renziana memoria. Su questa riforma costituzionale si è poi sviluppato un dibattito trasversale, come spesso accade nelle scelte tra il bianco e il nero, tra un sì e un no.

SI SONO DIVISI I COSTITUZIONALISTI che invece si erano uniti contro il referendum di Renzi. Si sono divise personalità della cultura. Si sono divise le forze politiche, a cominciare dal Pd, proseguendo con il centrodestra. A volte con un bizzarro rimescolamento di carte, anche perché votiamo un referendum che ha scavato nella travagliata storia delle proposte di riforma, peraltro preceduto da oltre il 90 per cento dei consensi del Parlamento.

Salvo poi chiamare il popolo a difendere il Parlamento contro la scelta compiuta dal Parlamento stesso, appunto con un referendum sollecitato da parlamentari di centrodestra. Bizzarria sottolineata dai testa-coda messi in scena da politici e partiti che prima avevano dato via libera alla riforma e adesso si mostrano pentiti. Ma forse è solo una partita nel gioco del potere. Del resto in queste settimane molti esponenti leghisti e praticamente tutti i berlusconiani hanno cambiato bandiera e dichiarato forte e chiaro che bisogna votare No per dare una botta al governo.

MEGLIO GUARDARE avanti, andando oltre le retoriche del Sì e del No, come suggeriscono alcune associazioni di riferimento della sinistra costituzionale, che hanno scritto su questo giornale invitando tutti, favorevoli e contrari, a guardare al dopo (come si legge nel documento a firma Azzariti, Boccia, Ippolito). Restando, questo l’auspicio, sullo specifico terreno delle riforme istituzionali, nel tentativo di svelenire la strumentalizzazione di chi vuole usare il referendum pro o contro la maggioranza. Oltretutto il voto politico dove i misurano i partiti è quello regionale e per i comuni (si vota in città importanti come Venezia, Mantova, Reggio Calabria).

Anche se non avrà conseguenze immediate e traumatiche sul governo “giallorosso”, tuttavia una vittoria a man bassa delle destre ci presenterà il conto di un’altra Italia. Il voto amministrativo è un test per tutti e in particolare per Pd e 5Stelle, che hanno comunque molto da perdere e poco da raccogliere in questo importante “sondaggio“ di metà mandato. E se delle 5 Regioni attualmente governate dal centrosinistra alcune passeranno alla destra fascistoide – con Berlusconi ormai trattato da Salvini e Meloni come un vecchio ragazzo di bottega – di certo cresceranno le divisioni e le ostilità interne ed esterne dei partiti di maggioranza. E il leader più a rischio sarà sicuramente Nicola Zingaretti.

NESSUN CONFRONTO è possibile con il 2015 e neppure con il 2018 perché i morti e feriti del Covid-19 e la devastante pandemia sociale hanno giustamente catturato l’attenzione, dirottandola sui problemi economici, sanitari, sociali. E proprio perché il paese deve affrontare il lungo inverno con la disoccupazione che brucia, le disuguaglianze, le emergenze – come il ritorno a scuola – e deve ricostruirsi nel rispetto dell’ambiente, del lavoro e dei diritti, non sarà questo voto amministrativo a decretare la vita o la fine del governo Conte. Oltretutto ci sono due aspetti fondamentali e dirimenti: una possibile seconda ondata pandemica a breve e il Recovery Fund, che porterà una pioggia di miliardi sull’Italia (nemmeno il più stupido governo tafazziano farebbe questo regalo all’avversario).

Saranno dunque vincenti (o perdenti) le logiche politiche locali, comprese le puntuali divisioni nella sinistra, come sempre (in Toscana ci sono quattro “sinistre”, una in coalizione con il Pd, tre fuori). Che alla fine decideranno vincitori e vinti. Con alcune curiose cartoline dal Bel Paese. Come il fatto che un esito elettorale dignitoso per il centrosinistra è nelle mani degli elettori di due regioni del nostro sud, la Campania e la Puglia – dove pure è presente una importante lista di sinistra unitaria e alternativa «Puglia solidale e Verde». Due presidenti del Pd, De Luca ed Emiliano, che chiedono il voto con un LunaPark di liste e candidati rastrellati da ogni parte, scommettendo (e sperando) sul voto disgiunto. Sono i guardiani del mare, contro l’onda nera di Salvini e Meloni che, dalle Marche al Veneto, già pregustano la vittoria.

ASSAI PIÙ complicata la vita del centrosinistra in Toscana dove, come in Emilia-Romagna un anno fa, si combatte sul filo del rasoio con un candidato, Eugenio Giani, che fa rimpiangere il suo predecessore. Mentre la sinistra è divisa al punto che potrebbe dare una mano decisiva alla sconfitta in una delle terre meglio governate in Italia.

Tutta in salita è invece la campagna elettorale di Ferruccio Sanza in Liguria, presidiata dal centrodestra. Pur essendo l’unica regione con un candidato frutto dell’accordo stiracchiato e all’ultimo secondo, tra Pd e 5S. I quali si accuseranno reciprocamente in caso di sconfitta. Eppure la bizzarria è proprio questa: come è possibile che le due forze politiche più importanti del governo Conte – che ha affrontato la tragedia Covid in modo più che dignitoso, pur avendo ancora molto lavoro da compiere – oggi si presentino disunite di fronte a milioni di elettori? Semplice: i gruppi dirigenti piddini e grillini sono fragili, divisi anche al loro interno, incapaci di guardare oltre l’immediato. Il collante che li tiene insieme si chiama Conte, un mediatore che ha dimostrato capacità insospettabili.

Ma più forte di lui è il collante dell’emergenza sanitaria, che ha richiesto e richiede una forte unità di intenti e un grande senso di responsabilità. Impegni finora ben interpretati da Liberi e Uguali e Sinistra Italiana, e in particolare dal ministro Speranza capace di gestire la salute pubblica in modo saggio ed equilibrato, senza alimentare protagonismi, allarmismi e disorientamento tra i cittadini.

RESTA INFINE l’incognita della partecipazione, quasi sempre calante nelle ultime votazioni. Si vota mentre l’Italia e il Mondo stanno affrontando una fase angosciosa, dura, carica di preoccupazioni e timori per il futuro delle generazioni più giovani. Indossare la mascherina per andare al lavoro, a scuola, a fare la spesa o la visita medica, si fa volentieri. Ma quanti sono disposti a indossarla per andare alle urne?

Sorgente: Le bizzarrie di un voto in maschera | il manifesto

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