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Caso Giuseppe Uva, carabinieri e agenti di polizia assolti anche in appello

Giuseppe Uva, morto il 15 giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte in caserma a Varese

Giuseppe Uva è morto mentre era nelle mani dello Stato. È seguendo quest’unica certezza, quest’unica insindacabile realtà di dolore in una nebbia di perizie, di opposizioni e silenzi, che la famiglia ha lottato per 10 anni, nella volontà di avere giustizia. Ma soprattutto di sapere la verità su quanto accaduto la notte fra il 14 e il 15 giugno 2008 quando Giuseppe, 43 anni, venne portato prima alla caserma dei carabinieri di Varese e da lì in ospedale per un Trattamento sanitario obbligatorio.

La mattina dopo era morto. Il calvario di Lucia Uva, la sorella, inizia allora. Non solo per la sofferenza del lutto. Ma soprattutto, per gli ostacoli al fare luce sulle responsabilità di quanto accaduto quella notte. Oggi è arrivata la sentenza d’appello. Che confermando quanto stabilito dai giudici in primo grado, assolve i due carabinieri e i sei agenti di polizia per i quali il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo aveva chiesto condanne a oltre 10 anni di carcere per omicidio preterintenzionale.

Assolti i due carabinieri e i sei poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta a Varese circa dieci anni fa. È la sentenza della Corte d’assise d’appello di Milano: i giudici hanno in sostanza confermato il verdetto di primo grado. Le accuse erano di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. H24, immagini Iacopo Altobelli, montaggio Valerio Argenio
Giuseppe Uva non sarebbe stato ucciso. Luce sulle sue ultime ore, non ci sarà. Per comprendere la complessità degli aspetti giudiziari di questa realtà però bisogna tornare indietro. Al 2013. Quando il ministro alla Giustizia Anna Maria Cancellieri decide di mandare degli ispettori per chiarire quanto sta accadendo a Varese su quella che definisce in Parlamento «una vicenda particolarmente dolorosa, tuttora con punti oscuri che devono essere chiariti, e rispetto ai quali non si è ancora pervenuti a una risposta giudiziaria convincente».

Alla base del suo intervento c’è la decisione del Giudice per le indagini preliminari di rigettare la richiesta di archiviazione con cui il procuratore allora titolare del procedimento, Agostino Abate, chiudeva le indagini sulla morte di Uva. L’ex senatore Pd Luigi Manconi, all’epoca presidente della commissione Diritti umani del Senato, sostenendo la lotta della sorella disse: «non esagerava nel denunciare, quasi da sola le responsabilità di chi non aveva nemmeno voluto ascoltare un testimone oculare».

Il Gip scrive che «Giuseppe Uva è stato percosso da uno o più presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali». Con cinque anni di ritardo quel testimone, Alberto Biggiogero, viene ascoltato. Il confronto dura più di quattro ore. Biggioggiero era con lui la sera in cui vennero fermati, ubriachi, dai carabinieri mentre spostavano transenne nel centro di Varese. E ai magistrati dice di averlo sentito urlare e chiedere aiuto una volta in caserma. Nel febbraio del 2017, Biggioggiero verrà arrestato per aver ucciso suo padre dopo una lite.

Nel frattempo l’iter giudiziario sul caso Uva era ricominciato. Al centro ci sono gli agenti, carabinieri e forze di polizia, che avevano in custodia Uva nella prima parte degli eventi di quella notte. I medici responsabili del successivo Trattamento sanitario obbligatorio in ospedale vengono infatti assolti in altro processo. Gli avvocati della famiglia continuano quindi a sostenere che Giuseppe abbia subito violenze in caserma. Il primo procuratore aveva escluso qualsiasi abuso di potere. Il secondo arriva alle stesse conclusioni. E di nuovo è un giudice, in questo caso il Gup, a imporre il rinvio a giudizio degli agenti per abbandono di incapace, arresto illegale e abuso di autorità.

Si celebra così un processo alla Corte d’assise di Varese. Siamo nel gennaio 2016, il procuratore incaricato chiede che gli agenti vengano prosciolti. «I carabinieri, quella sera, non hanno fatto altro che il loro dovere», dice: «I testimoni che hanno riferito di percosse o hanno ritrattato o sono stati smentiti dai fatti». La famiglia continua a sostenere il suo bisogno di giustizia. Non chiede risarcimenti, se non simbolici: un euro a capo d’imputazione. La sorella, Lucia, combatte solo per la verità. Lo fa anche con toni aspri, con i toni di chi si sente solo di fronte alle istituzioni a cui chiede spiegazioni; finisce denunciata anche lei, e poi assolta per un video su Facebook.

Si arriva quindi alla sentenza di primo grado. Ad aprile del 2016 la Corte d’assise di Varese assolve tutti gli imputati. A luglio le 162 pagine della motivazione della sentenza spiegano perché la Corte ha stabilito che l’omicidio non sussiste. Le perizie, scrivono i giudici: «consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva».

La sentenza viene impugnata dalla Procura generale di Milano. Per la prima volta, è il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo a chiedere la condanna degli imputati, perché la contenzione fisica a cui sarebbe stato sottoposto il 43enne, spiegava, per «violenta e ingiusta durata» doveva ritenersi «causativa del grave stato di stress che innestandosi in una preesistnte patologia cardiaca ha determinato l’evento aritmico terminale e il decesso di Giuseppe Uva». Per questo aveva chiesto condanne per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, a 13 anni di carcere per i due carabinieri e a dieci anni e sei mesi per i sei poliziotti.

Sorgente: Caso Giuseppe Uva, carabinieri e agenti di polizia assolti anche in appello – l’Espresso