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Il solo, unico bisogno primario è quello di autoammirarsi: esso per di più non si sazia mai né si estingue neppure per un attimo

di EUGENIO SCALFARI

Questa settimana piena di sconvolgimenti politici, economici e giuridici per la pestilenza mondiale ha portato con sé ulteriori aggravamenti di cui i giornali, a cominciare dal nostro, si sono ampiamente occupati. Non sembri strana la decisione da me presa in accordo con il nostro direttore Carlo Verdelli di lasciar da parte questi argomenti e personalmente occuparmi invece di un tema del tutto diverso: ciò che io concepisco come la sostanza dell’Essere umano. Ho scritto molte volte su questo argomento. In realtà non è affatto estraneo alle vicende politiche che si succedono da molti mesi in tutto il mondo. In gran parte esse dipendono dal soggetto che siamo, da quando la nostra specie esiste e quindi da milioni di anni. Io ho più volte affrontato questo tema ma lo avevo messo da parte in questi ultimi mesi perché mi sembrava troppo remoto rispetto al coronavirus.

In realtà non lo è: il coronavirus non aggredisce le automobili, i treni, gli aerei e via dicendo; aggredisce in realtà chi ci sta dentro e quindi questa è la vera realtà dei fatti. Chi ci sta dentro è anche (non soltanto) l’uomo. E chi è l’uomo? Da quali forze è animato o combattuto: la terra, il sole, la luna, l’Io e naturalmente anche Dio e tutti gli elementi universali così come noi li concepiamo, esistenti o inesistenti, amici o avversari, protagonisti o subordinati ad altre forze che a volte conosciamo e altre volte ci limitiamo a supporne l’esistenza.

Io ho scritto, nel corso della mia vita intellettuale, molto spesso di questo aspetto e oggi ritengo opportuno ritornarvi. I malanni che infuriano su quasi tutto il mondo sono già ben noti e li do quindi per acquisiti. Questa settimana non mi occuperò di essi ma di tutto quel mondo che sta dietro di noi, dentro di noi e nell’universo che ci circonda. La mia presentazione è questa: «Io sono stato un mercuriale che sognava d’essere un saturnino. Sono stato un mediatore di scambi, di commercio, di conflitti e anche un accompagnatore spesso di interessi, talvolta anche di sentimenti e di anime». E come dice Ulisse che parla rivolto a Dante nella Divina Commedia: “Io misi me per l’alto mare aperto”. Cominciamo.

Ci hanno provato in molti a scrivere la biografia dell’Io e in molti ancora ci proveranno. Tra tante sorprese che il futuro ci riserva, c’è almeno un punto assolutamente scuro: quest’esercizio biografico continuerà fino a quando la razza umana non sarà estinta. L’Io è una brutta bestia, ciascuno di noi lo sa per conoscenza diretta. Ti morde il cuore, ti becca il cervello, si agita dentro lo scafandro-prigione nel quale l’hai rinchiuso, picchia colpi sordi alle tue interne pareti. Vuole esser preso in considerazione, manifestarsi, essere guardato e ammirato. Da chi? Da te, naturalmente. E tu muori dalla voglia di ammirarlo. Tu sei venuto al mondo apposta per questo. Parliamoci chiaro: tu sei venuto al mondo soltanto per questo e non sai far bene che questo.
In tutte le altre occupazioni sei un dilettante, ma nella professione di ammiratore dell’Io, del tuo naturalmente, tu sei uno specialista eccellentissimo, un artigiano rifinito; che dico? Un artista senza rivali, nessuno può battersi, su quel terreno non hai concorrenti, non c’è gara per il semplice fatto che i tuoi possibili competitori sono tutti occupatissimi a mandare avanti la stessa mirabile impresa: anch’essi ammirano l’Io, naturalmente il proprio. Sicché ciascuno vive in mezzo agli altri, a contatto sempre più stretto con gli altri, visto che il pianeta si va rapidamente affollando, intento a carezzare, vezzeggiare, applaudire, propagandare la propria immagine.

Sento parlare di bisogni primari e li sento elencare: cibo, sesso, vesti, riparo. Ma niente è più sbagliato di un elenco del genere. Il solo, unico bisogno primario è quello di autoammirarsi: esso per di più non si sazia mai né si estingue neppure per un attimo. È il solo desiderio impossibile da spegnere che condiziona tutte le altre scelte e comportamenti.

Il lato comico della situazione sta nel fatto che noi escludiamo con tutte le nostre forze che quel desiderio esista dentro di noi. Noi non sappiamo e anzi neghiamo che esso sia all’origine di tutte le passioni, gli amori, gli odii che albergano nell’animo nostro. E perfino di quello che chiamiamo il sentimento morale.

Bestemmio forse? Il sentimento morale come effetto dell’amore di sé? Il sentimento morale come risvolto del più radicato e permanente egoismo?

Esattamente questa è la deplorevole situazione nella quale ci troviamo da molte migliaia di anni. Ho la sensazione che con il passare del tempo essa si sia alquanto aggravata e che la tendenza all’aggravamento prosegua con crescente rapidità.
Voi vedete a questo punto che la faccenda è diventata terribilmente complicata. Dal canto mio, sono consapevole che il problema mi affascina esclusivamente perché mi offre una buona motivazione per continuare ad ammirarmi, almeno per tutto il periodo in cui cercherò di risolverlo. Del resto che altro potrei fare? E voi, tutti voi, che altro state facendo?

Si scopre ora che questo despota è tuttavia condizionato dalla qualità del sangue che lo nutre, dall’intensità degli impulsi, infine dalla potenza degli istinti, giovani leoni accovacciati ma tuttora ruggenti.

La partita comunque è sempre quella di Io contro il resto del mondo, sicché non è una scoperta il constatare che un fegato affaticato, un cuore intermittente, un arto azzoppato, una vista menomata porranno al despota dell’organismo condizioni che lo segneranno in modo di governare e di esprimersi.

Ma pur entro i limiti che lo determinano, è Io che si pensa responsabile delle scelte e dei comandi. È uscito trionfatore da una battaglia lunghissima, ha distrutto una parte della bestia dalla quale era nato, una ricchezza felina è stata amputata o debilitata; si è in qualche modo ritirato dal corpo per potersi separare e distinguere dalla circostante natura; si è arroccato lassù, in quella specie di fortezza tra la fronte e la nuca e da lì vigila, si arroga, progetta.

Pensa se stesso, pensa Dio, pensa la morte. Ambigui noi siamo, l’ambiguità è la nostra forza e il nostro mistero, sorridente malinconia ti circonda le spalle, occhio azzurro desidera il mondo, occhio nero vanifica la speranza. Vuoi tu, gentile principe, rosmarino per i ricordi e viole per i pensieri? Dissente il corpo meglio del pensiero? Anche il pensiero è un sentimento. Noi siamo la bestia che pensa il pensiero che erompe dal corpo, lo sovrasta e lo frusta perché si adegui ai suoi comandi, ne è piegato a sua volta in una lotta che sempre si ripete con esiti alterni, infine ti affioca mentre i veleni della vecchiezza irrigidiscono i tessuti, rallenta il battito del cuore, si disseccano le linfe e gli umori.

Quando si spegne il lucignolo esausto nel vaso senza più olio, del corpo che l’ha prodotto e ospitato in così lunga e contrastata convivenza non resta che la gelida spoglia riconsegnata alla natura da cui orgogliosamente la bestia che pensa si era separata.

Voi temete la morte. Chi non la teme? Cercate di scordarvene, non vi riguarda, non è vero? Cadono accanto a voi le vite degli altri, ma che vi importa? L’umana pietà vi commuove appena un istante se avete un tempo vuoto per soffermarvi.

Così è per tutti. Se così non fosse saremmo già pazzi furiosi. E quando per un più lungo tratto di tempo la commozione sovrasta e tu soffri la morte altrui come un’assenza crudele è perché la morte ha portato con sé una parte di Io che a quell’altrui era stata affidata, ha infranto uno degli specchi in cui una parte di Io si rifletteva e di lì tornava a te per confortare la tua solitudine. Tu non piangi il morto ma la scheggia di te che andrà sepolta con lui.

Quanta energia sviluppa il sentimento della morte? Tale è la forza immensa di quella paura che per liberarcene dobbiamo dimostrare ogni giorno di essere simili agli dèi.

L’Io, statene certi, è nato per questo, questo sa fare, di questo si gratifica. Io ha creato Dio e dunque è potente almeno quanto lui.

Accade talvolta nei rapporti tra le persone che vi sia un immedesimarsi reciproco, un desiderio e anzi un bisogno di capire e di esser capiti, dedicarsi e ricevere dedicazione. In questi casi, che in verità non sono frequenti perché la paura di darsi è di solito assai più forte del coraggio di aprirsi e di giocare se stessi in una libera partita, è molto difficile, anzi impossibile stabilire chi possiede e chi è posseduto, chi cattura e chi è catturato. Se il desiderio è sincero, se il bisogno è intenso, il gioco del vincitore e del vinto non ha luogo.

Il fondamento di questo genere di rapporti sta nella disponibilità di vagheggiare l’immagine dell’altro più della propria, arrivando a una sorta di trasfigurazione reciproca e infine – quando lo scambio affettivo si verifica a livelli profondi – in un mutamento di sé, un allargamento della persona e dello sguardo per mezzo del quale essa riesce ad accogliere la circostante realtà.

A me è accaduto di avere rapporti di questa profondità due volte nel corso della vita: lo considero un privilegio, un’inestimabile ricchezza per me, anche se non sono affatto sicuro che lo sia stato in termini di felicità per le persone che in quel tipo di rapporto sono state le mie interlocutrici. A chi poi mi domandasse se il mio è stato un carattere felice risponderei di sì, che lo è stato nonostante le fatiche della vita che sono state molte, le contraddizioni che spesso sono state laceranti ma non hanno lacerato perché il tessuto ha resistito e ha acquistato col passare degli anni una forza connettiva sempre più robusta.

Io mi sono vissuto quasi possessivamente come un Ulisse che viaggiava e una Penelope che tesseva; adesso che sono arrivato al colmo dei miei anni mi piace immaginarmi come una sorta di Noè alla guida di un’arca nella quale sono entrati in molti e diversi. Quasi nessuno ne è uscito. L’arca ha affrontato parecchie tempeste come è naturale per tutte le arche che si rispettino. E io sono stato di volta in volta leone e colomba, fiore e ape, ma anche lucertola e formica.

Sono debitore per questo alla formica e alla lucertola, all’ape e al fiore e a tutti coloro che nell’arca hanno trovato riparo e forse anche prigione. Ciascuno decide per sé. Per questo dico che, quando guardo indietro al passato, scopro di me che forse sono stato più un luogo che un carattere. O forse il carattere di un luogo. Quest’immagine non mi dispiace, anzi mi consola. Sono stato più esteso che profondo. Non ho conosciuto né vette né abissi, ma vasti altopiani.

Mi vengono in mente alcuni versi:

“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Fossimo presi per incantamento…”

“Perch’i’ no spero di tornar giammai …”

“Noi siamo della stessa stoffa di cui son fatti i sogni
E da un sonno è racchiusa la nostra piccola vita”.

Sorgente: Quella brutta bestia che è l’Io | Rep


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