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Cenerentola d’Europa per quanto riguarda la crescita, vede risalire lo spread e mantiene un debito da record. E oltre a fare i conti con le crisi industriali deve affrontare il crollo demografico e il gap fra Nord e Sud

di ETTORE LIVINI

MILANO –  L’Italia del caos Ilva e dell’eterno rinvio (a spese dei contribuenti) della vendita di Alitalia festeggia con il triplete della vergogna il suo dodicesimo anno zero. I numeri sono pietre: Roma conquisterà nel 2020 per il terzo anno consecutivo l’inglorioso titolo di cenerentola d’Europa, la Champions dove vince il Paese che cresce meno nella Ue. La nostra economia arranca ancora al – 4% rispetto ai livelli del 2007, prima del crac Lehman, mentre Francia e Germania hanno superato i livelli pre-crisi già nel 2011. Peggio di noi fa solo la Grecia, che però è in gran rimonta e si è cavata la soddisfazione in questi giorni di mettere la freccia e scavalcarci nella classifica dello spread, dove oggi siamo la maglia nera continentale con 90 punti di ritardo persino sulla Spagna, congelata da mesi dalla crisi politica e alla vigilia di elezioni incertissime.

Il caos Ilva e Alitalia
L’identikit dell’eterna paralisi tricolore ha tante facce. I dati economici sono solo la punta dell’iceberg. C’è l’inaffidabilità politica dimostrata nel caso Ilva (al netto delle furbizie tattiche degli indiani di Arcelor Mittal) che tiene da sempre lontani gli investitori stranieri. C’è il teatrino di Alitalia. Costato solo negli ultimi due anni e mezzo 1,4 miliardi di denaro dei contribuenti, in attesa messianica di trovare un compratore che fatica a materializzarsi. E con un finale – dopo sette rinvii del termine per la vendita – scritto a tempo: una nazionalizzazione via-Fs con l’appoggio interessato di Atlantia, pronta a mettere un po’ di soldi nella partita solo per provare a salvare le concessioni autostradali a rischio dopo la tragedia del Ponte Morandi.

La zavorra del debito
Negli ultimi dodici anni, politicamente parlando, l’Italia le ha provate un po’ tutte: il fascino del ricco di successo Silvio Berlusconi, gli algidi turbo-tecnici di Monti, il Pd di Renzi e quello 2.0 di Zingaretti, i gialloverdi e i giallorossi. Mutano i fattori, il risultato resta lo stesso: cambiare il Paese del Gattopardo è missione quasi impossibile. I proclami e la fiera delle buone intenzioni, per dire, non sono riusciti a scalfire la montagna del debito pubblico, una zavorra da 41.050 euro a testa che grava sulle spalle di tutti gli italiani, neonati compresi. Nei 34 mesi dell’era Renzi è aumentato di 106 miliardi, nei 16 targati Gentiloni di 86, i 14 del governo del cambiamento non hanno cambiato nulla, facendolo lievitare di 140.

Il regalo (sprecato) di Draghi
San Mario Draghi e i suoi tassi sotto-zero hanno regalato negli ultimi sei anni all’Italia uno sconto di 71 miliardi sugli interessi sul debito rispetto ai livelli del 2012. Un assist di cui la politica non ha saputo approfittare, come dimostra il tiro alla fune sulla manovra e la certezza che le Finanziarie dei prossimi due anni partiranno con il macigno di 43 miliardi di clausole di salvaguardia da disinnescare, l’ennesima cambiale a scadenza da onorare. Tra mance elettorali, riforme a metà o mai decollate e uscite varie il tesoretto garantito a Roma dalla Bce si è perso in mille rivoli: il debito pubblico è salito dai 1988 miliardi di fine 2012 ai 2.463 attuali.

Una giustizia che non c’è
Lo stato di salute (precario) della finanza pubblica non è l’unico barometro dell’Italia al palo. I tempi della giustizia civile – altro babau per gli investitori esteri – restano biblici. Ci sono circa 4 milioni di fascicoli in attesa di soluzione, quanto basta per coprire 50 campi di calcio. Per arrivare alla sentenza definitiva da noi servono (dati Ue) otto anni, contro i meno di due del resto del continente. Basterebbe ridurre l’attesa del 10%, ha calcolato in passato Confindustria, per aggiungere lo 0,8% al pil. Siamo il paese che spende meno in Europa in investimenti pubblici – il 2% del pil, briciole – siamo i 24esimi su 28 per digitalizzazione e le nostre piccole imprese pagano l’energia il 7% più delle concorrenti spagnole e il 35% in più dei francesi.

Il Moloch dell’evasione
Un altro Moloch in apparenza inattaccabile è quello dell’evasione fiscale: qualche progresso, va detto è stato fatto: l’anno scorso sono stati “recuperati” 19 miliardi contro i 4,4 del 2006. Ma il nero nascosto in Svizzera o nei materassi vale ancora ben oltre i 100 miliardi. Questa fotografia sconfortante ha avuto una conseguenza ovvia: il boom dell’emigrazione dall’Italia. Nel 2017, ultimo dato disponibile, hanno fatto le valigie e salutato il Belpaese 132 mila persone, metà giovani e un terzo laureati e due terzi di loro sono andati in altri paesi della Ue dove i numeri danno qualche speranza in più.

I vecchi e il Pil
La fotografia dell’Italia, ovviamente e per fortuna, non è fatto solo di toni scuri e pessimisti. Mangiamo bene, custodiamo gran parte del patrimonio artistico mondiale e in fondo – visto che la salute è tutto – siamo secondi solo al Giappone come vita media attesa, con la bellezza di 82,54 anni. A ricordarci che comunque c’è poco da stare allegri anche se si campa a lungo è arrivato però ieri il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: “L’invecchiamento della popolazione fa crescere la spesa per pensioni e assistenza sanitaria – ha detto – e causa un aumento del debito pubblico e peggiora le prospettive di crescita del Pil”. L’Italia a crescita zero, purtroppo, non è nemmeno un Paese per vecchi.

Sorgente: Italia, Paese che non va | Rep

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