0 9 minuti 5 anni

FESTIVALFILOSOFIA. Parla l’antropologo francese Michel Agier, domani a Carpi per la lectio magistralis sul «divenire stranieri»

Gianpaolo Cherchi

«Nel linguaggio etnologico la persona è l’informatore privilegiato, quell’individuo che rende comprensibile l’intero gruppo sociale». A esserne sicuro è Michel Agier, directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove conduce ricerche in ambito etnografico sulla globalizzazione e sui fenomeni migratori, occupandosi anche di antropologia urbana.
Quest’anno sarà per la prima volta ospite al FestivalFilosofia, dove domani terrà a Carpi una lectio magistralis sul divenire stranieri. Argomento che ben si attaglia al tema scelto per la nuova edizione del festival: Persona: questione delicata, da maneggiare con cura. «Si tratta di un vecchio paradigma etnografico – continua Agier – che è andato incontro a diverse critiche e che oggi è stato portato fuori dalle sue cornici tradizionali, reso in qualche modo più funzionale a una società globalizzata e frammentata».

In che senso funzionale?
Sia in un contesto come i legami di parentela che in quello moderno dello Stato, il concetto di persona si riferisce a una relazione fra la parte e il tutto. Una relazione fatta di vincoli e di libertà, di diritti e doveri. Ma nella definizione di questo concetto ne intervengono inevitabilmente altri, come quello di identità, che può tuttavia riferirsi non solo al lignaggio (genitori, antenati, discendenti) ma anche alla cittadinanza, ovvero alla precisa modalità di appartenenza istituzionale di un individuo alla società.

E che differenze ci sono fra la persona e il cittadino?
La domanda è malposta. La cittadinanza non ha completamente soppresso la persona, proprio perché è sempre legata alla nozione di identità. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere in che modo una persona immersa in una rete sociale (alla quale è legata da rapporti di parentela o alla quale ritiene per varie ragioni di appartenere) riesce a emanciparsi e diventa il soggetto di un discorso pubblico e di un agire politico? Questa è la domanda che mi pongo nel mio lavoro. E la risposta non si trova nella figura dell’individuo isolato ma piuttosto nei meccanismi di formazione di nuove comunità politiche, che danno senso alla nozione di persona, oggi in un modo più libero ed effimero rispetto al passato, più «liquido» come direbbe Bauman.

Nel suo lavoro fa spesso riferimento alla nozione di «campo» (si pensi al volume «Un monde de camps», ma anche al libro (tradotto da Ombre Corte) «La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo). Cosa intende e qual è il suo coinvolgimento teorico e politico con il concetto di «campo»?
A un certo punto le mie ricerche mi hanno imposto di dover dare un senso alla nozione di campo: in Africa o in Medioriente, per esempio, il «campo» non si riferisce affatto ai campi di sterminio o alla Shoah, come avviene invece in Europa, dove la dimensione tanatopolitica domina la riflessione (pensiamo ad Agamben).
Certo, esiste una dimensione oscura in qualsiasi forma di campo, anche nei campi umanitari: una forma di «morte sociale» che anticipa e prepara alla morte fisica, come diceva Hannah Arendt. È qualcosa che ha a che fare con la scomparsa del quadro sociale ordinario delle persone e con la loro separazione in uno spazio la cui stessa esistenza, sociale e politica, è negata. Ma detto questo, il campo rimane anche uno spazio di vita: ogni agglomerato umano ricrea forme di vita, sociali, familiari, culturali, politiche.
Il campo non è uno spazio isolato da tutto questo, anzi il contrario. Esso acquisisce assai presto una relativa autonomia che lo rende persino una città in via di realizzazione. Si è spesso visto nei campi di Africa, Kenya, Uganda, ecc. Così come nei campi palestinesi, che esistono da 70 anni. Lo abbiamo visto anche a Calais di recente, con il campo chiamato «giungla», che aveva raggiunto diecimila abitanti, e con all’interno ristoranti, scuole, chiese e moschee, e con una certa autonomia politica. Credo sia proprio questa trasformazione del campo in un luogo reso vivibile per i suoi abitanti che ha portato il governo francese a distruggerlo.

Un altro aspetto fondamentale del suo lavoro di ricerca è orientato verso una antropologia delle migrazioni, specialmente per quanto riguarda le logiche dello sviluppo urbano. Nel suo «Anthropologie de la ville» (purtroppo non tradotto in italiano) sottolinea l’attualità dell’idea lefebvriana del «diritto alla città» soffermandosi però sulle situazioni di transito e di passaggio, in modo particolare sulla condizione dei rifugiati e sulle dinamiche che portano alla produzione di figure quali l’escluso, o più genericamente lo straniero. Come si diventa stranieri?
Il legame tra mobilità umana e città è sostanziale, perché la storia della città è sempre legata a quelle di migrazione, a insediamenti di gruppi provenienti da altri luoghi, più o meno vicini o lontani, che si sono stabiliti in un preciso posto disegnando dei confini. Ecco perché in quelli che definiamo «margini» urbani è possibile osservare dal vivo la genesi della città. Questo è ciò che chiamo antropologia della città: una genesi sociale, culturale, politica ed economica della città che può essere osservata direttamente. E ciò avviene anche nel campo, nella baraccopoli, come nelle favelas o negli slums: si tratta di mostrare la ricorrenza di questa dinamica di arrivo, occupazione e insediamento dell’habitat, e dell’assetto urbano che viene ad assumere. Il tutto «in tempo reale».

I rifugiati che vivono nelle nostre città sono l’esempio di come spesso il diventare «straniero» comporti la perdita dello status giuridico di «persona». Come si pone la questione dei diritti?
Un tema decisivo per la definizione dei rapporti tra lo straniero e lo stato di accoglienza, che misura la distanza dalla cittadinanza. Gli stranieri non sono uguali da questo punto di vista. Per esempio, in Francia, uno straniero europeo avrà il diritto di voto alle elezioni comunali, mentre questo non è il caso di un non europeo, anche se vive in Francia da anni. Oppure, a seconda del paese, il diritto al lavoro può essere concesso più o meno rapidamente o per niente ai richiedenti asilo. Tutti possiamo stare su un asse verticale di diritti e secondo i contesti vediamo che il cursore è più o meno alto o basso, in alto c’è l’ideale del cittadino del mondo, ovunque a casa, libero e dotato di tutti i diritti umani, praticamente non più straniero.
E alla base di questo asse di diritti, al contrario troviamo lo straniero assoluto, senza alcun riconoscimento e senza un nome. Siamo tutti nello stesso mondo, collegati l’uno all’altro. Quel che oggi caratterizza le relazioni tra i paesi è la domanda di uguaglianza, nell’ottica di un cosmopolitismo sempre più necessario. La risposta può trovarsi solo nel riconoscimento di una pari condizione cosmopolita per tutti.

E in che modo ritiene possa essere realizzabile, politicamente, una simile condizione?
Esiste un diritto globale alla mobilità, che è ineludibile. Si tratta di attuarlo su un piano legale e politico. E credo che un modello valido sia il principio dell’ospitalità. Immanuel Kant diceva che l’ospitalità consiste semplicemente nel dire all’altro «non sei mio nemico». E i modelli per una sua applicazione concreta mi pare non manchino: lo stesso ospedale, in quanto luogo destinato al prossimo, costituisce un esempio storico concreto; e se non dovesse bastare si può guardare a fenomeni contemporanei, come Riace. Si tratta di dare una cornice giuridico-politica.
Il dicembre scorso a Marrakech si è tenuta una conferenza intergovernativa organizzata dalle Nazioni Unite, per discutere sull’adozione di un patto globale sulla migrazione, e si è avuta l’impressione che si trattasse solo dell’ennesimo incontro fra stati per parlare della migrazione su scala globale. Tutto questo però è bastato per far reagire i partiti di estrema destra, soprattutto in Europa. La soluzione realistica in ogni caso è quella di procedere con determinazione in questa direzione. In Francia il Consiglio costituzionale ha fatto appello al concetto di «fraternità» nella Costituzione per invalidare una decisione del tribunale che penalizzava i gesti di solidarietà e accoglienza dei migranti in una situazione irregolare. Allo stesso modo la parola «ospitalità» può aiutare ad aprire le porte: ad affrontare i fenomeni e i problemi senza per forza adottare le logiche della destra.

Sorgente: Praticare l’ospitalità per dire all’altro «non sei mio nemico» | il manifesto

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20