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Prima puntata dell’inchiesta sui fondi europei – L’Italia è il secondo Paese Ue per risorse nel settennato 2014-2020. A fine 2018 ne aveva utilizzato meno di un quarto e arranca soprattutto nel mettere a frutto Fondo sociale e Fondo di sviluppo regionale. L’Agenzia per la coesione voluta da Letta e la riforma di Renzi non sono bastate per velocizzare le procedure. E il governo continua a usare “trucchi” contabili per avvicinarsi agli obiettivi. Tre programmi su 51, comunque, non li hanno raggiunti

La corsa contro il tempo fatta negli ultimi mesi del 2018 a qualcosa è servita. L’Italia, che a fine 2017 era riuscita a spendere solo il 9% dei 75 miliardi di fondi Ue e cofinanziamenti nazionali cui ha diritto per il periodo 2014-2020, con uno sprint finale è arrivata ad utilizzare il 23% delle risorse e a destinarne il 68%. Ma c’è poco da festeggiare, non solo perché tra i 28 solo Croazia, Slovacchia e Spagna hanno fatto peggio. Ma soprattutto perché la Penisola arranca nel mettere a frutto Fondo sociale europeo e Fondo europeo di sviluppo regionale. Ovvero i 17,4 miliardi destinati ad aiutare i giovani Neet nella ricerca di un posto, a promuovere l’imprenditorialità, a ricollocare i disoccupati over 45 e finanziare l’aggiornamento delle lavoratrici che rientrano dalla maternità. E gli altri 33,5 che dovrebbero finanziare lo sviluppo sostenibile, la competitività delle piccole e medie imprese, la ricerca e le nuove tecnologie, l’istruzione, la messa in sicurezza delle scuole. Soldi che restano in gran parte inutilizzati proprio mentre Roma chiede di cambiare i vincoli europei responsabili secondo Matteo Salvini di “disoccupazione, precarietà, chiusura degli ospedali e blocco degli investimenti“.

L’Agenzia voluta da Letta e la riforma di Renzi non sono bastate – Il settennato di programmazione iniziato nel 2014 ha riservato all’Italia un piatto ricchissimo: con circa 45 miliardi di fondi comunitari, a cui va sommato il contributo nazionale e regionale, siamo il secondo beneficiario nell’Unione dopo la Polonia. Per questo alla fine del 2013 il governo Letta aveva promesso di invertire la rotta, stoppando lo spreco dei fondi causa inefficienze ed eccesso di burocrazia. Lo strumento doveva essere la nuova Agenzia per la coesione territoriale, con la mission di assistere le amministrazioni, monitorare l’uso dei soldi e pure gestire direttamente specifici progetti (oggi si occupa di quello su Governance e capacità istituzionale e del Pon Città Metropolitane). L’anno dopo Matteo Renzi avrebbe trasferito alla presidenza del Consiglio il Dipartimento per le politiche di coesione, sottraendolo al ministero dello Sviluppo e attribuendosi “potere sostitutivo” sull’utilizzo dei fondi in caso di inadempimento, ritardi o inerzia delle amministrazioni. “Una riorganizzazione più formale che sostanziale, visto che il grosso delle risorse continua ad essere gestito dalle Regioni, soprattutto quelle del Sud“, fa notare Andrea Ciffolilli, esperto di politiche europee per lo sviluppo regionale e l’innovazione che ha coordinato numerosi progetti della Commissione e si è occupato di questi temi su lavoce.info.

Utilizzato meno di 1 euro su 4. Tre programmi non hanno raggiunto i target – Come evidente dal grafico in fondo alla pagina, i risultati continuano a non essere brillanti. A quattro anni dall’avvio del nuovo ciclo, 28 miliardi di euro non sono stati neppure allocati, cioè associati a uno specifico obiettivo. Mentre solo 17,5 miliardi su 75 sono stati effettivamente utilizzati a valere su Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), Fondo sociale europeo (Fse), Fondo per l’occupazione giovanile – quello che finanzia Garanzia giovani – e i Fondi per Agricoltura e sviluppo rurale e per Affari marittimi e pesca. Prendiamo i primi due, che cofinanziano 51 dei 75 programmi operativi complessivi: al 31 dicembre 2018, data dell’ultimo monitoraggio ufficiale, l’Italia ha certificato di aver speso solo il 20% delle risorse del Fse (3,5 miliardi) contro una media Ue del 27% e pianificato l’utilizzo del 54% dei 17,4 miliardi complessivi. Ed è ferma al 20% (6,5 miliardi) anche la spesa del Fesr. Tre programmi su 51, poi, non hanno raggiunto gli obiettivi di spesa e sono quindi a rischio di disimpegno automatico: tradotto, Bruxelles potrebbe riprendersi i soldi. Per un totale di 61,2 milioni di euro, di cui 35 destinati al Programma nazionale Ricerca e innovazione gestito dal Miur e 24,6 al Pon Inclusione gestito dal ministero del Lavoro, da utilizzare tra l’altro per le politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. I due ministeri hanno però chiesto alla Ue di riconoscere l’eccezione al disimpegno “per la presenza di ricorsi giudiziari” e “per cause di forza maggiore“.

Gli stratagemmi per avvicinarsi agli obiettivi – E va considerato che in entrambi i casi il governo “per facilitare il raggiungimento dei target di spesa” e scongiurare la perdita di risorse più ingenti è ricorso a un trucco: lo scorso ottobre il dipartimento Politiche di coesione ha chiesto e ottenuto dalla Commissione di ridurre il tasso di cofinanziamento nazionale in modo da abbassare la cifra da spendere entro i termini previsti e avvicinarsi agli obiettivi intermedi. Un meccanismo fotocopia rispetto a quello utilizzato nel 2012 dall’allora ministro per la coesione territoriale del governo Monti Fabrizio Barca. Lo stesso stratagemma è stato impiegato per i programmi operativi regionali Por Basilicata Fesr, Por Sicilia Fesr e Por Molise, con riduzioni fino a 25 punti percentuali, e per i Pon Governance, quello per le Città metropolitane (gestiti direttamente dall’Agenzia per la coesione) e quello per la Scuola. Con il risultato che 944 milioni di risorse destinate alle tre Regioni e a quei programmi hanno dovuto essere riprogrammate. “È una scelta grave dal punto di vista strategico”, commenta Ciffolilli. “I fondi europei dovrebbero dare valore aggiunto agli investimenti nazionali: se diminuisco quelli nazionali il meccanismo non funziona più. Nonostante questo è una pratica a cui l’Italia ricorre spesso. Un altro trucco consiste nel rendicontare alla Commissione progetti in realtà già in costruzione e già finanziati, i cosiddetti “progetti coerenti” o “sponda“. Ma così viene meno il senso di una programmazione settennale mirata allo sviluppo e non legata al ciclo politico“.

Poca capacità progettuale e competenze frammentate – Il minimo comune denominatore è che le amministrazioni sono lente nella progettazione degli interventi, nei controlli e nella certificazione della spesa. Quando si accorgono di essere in ritardo, parte la corsa a rendicontare e spendere purchessia. Anche presentando come giustificativo “fatture” per lavori già in corso, accantonando soldi in fondi di garanzia che (forse) verranno utilizzati in un momento successivo o finanziando a pioggia iniziative come feste patronali e sagre, più utili per corroborare il consenso a livello locale che per lo sviluppo del territorio. Secondo Ciffolilli, accanto alla complessità oggettiva dei regolamenti europei pesa la scarsa capacità progettuale e amministrativa, che chiama in causa la preparazione della pubblica amministrazione. Poi c’è il problema della governance, che resta bizantina. “Dopo la riforma del titolo V della Costituzione le competenze sono frammentate tra Stato, amministrazioni locali, Agenzia per la coesione. Così può anche succedere che un ministero e una Regione mettano a bando risorse per lo stesso obiettivo, per esempio favorire investimenti innovativi nelle piccole e medie imprese, ma con parametri diversi: ovviamente le aziende partecipano a quello con i criteri meno restrittivi“. Mentre l’altro bando va deserto.

L’Anci aggiunge che “i tempi in cui maturano e si consolidano le scelte di programmazione risultano troppo dilatati. Mediamente il processo dura dai due ai tre anni  dall’avvio del ciclo”. Risultato: “Le scelte programmatiche non sempre risultano coerenti con le priorità indicate dai Comuni in sede di condivisione dei programmi operativi. Questo comporta un successivo passaggio di verifica di coerenza degli interventi finanziati con gli strumenti di programmazione ordinaria dei Comuni, con intuibile ulteriore aggravio di tempi”. In più gli enti lamentano l’eccessiva “complessità delle procedure di rendicontazione e certificazione delle spese” e il “troppo laborioso e burocratico sistema di controllo, che coinvolge sia le strutture interne dei Comuni, sia le autorità regionali, nazionali ed europee”.

Il peso di truffe e irregolarità – Poi ci sono i casi di vere e proprie truffe. E non si tratta di casi isolati visto che secondo dati raccolti dall’Ufficio valutazione di impatto del Senato i controlli fatti dalla Finanza tra 2014 e 2016 hanno riscontrato irregolarità in 6 casi su 10. Con un picco nel Mezzogiorno, dove si concentra l’85% delle frodi su fondi strutturali e spese dirette della Ue. La conseguenza è un ulteriore rallentamento della spesa: basti dire che nei mesi scorsi la Regione Calabria si è vista interrompere 130 milioni di finanziamenti in attesa che la Commissione faccia le sue verifiche alla luce dell‘inchiesta su tre progetti cofinanziati nell’ambito del Por che vede indagato anche il governatore Mario Oliverio. Mentre la Sicilia dovrà restituire 380 milioni relativi al periodo di programmazione 2000-2006 a causa delle gravi carenze riscontrate da Bruxelles nella gestione e nei controlli.

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Sorgente: Fondi Ue, 58 miliardi su 75 ancora da usare. Speso solo il 20% delle risorse per occupazione, ricerca e piccole imprese – Il Fatto Quotidiano

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