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Dopo quarant’anni di controrivoluzione liberale, occorre individuare i nemici della democrazia e immaginare un sistema in cui davvero tutti e tutte possano prendere parte alle decisioni collettive

Dopo una campagna elettorale piuttosto noiosa e dagli esiti inquietanti, digerita l’abbuffata di analisi, interpretazioni e scenari che hanno seguito il voto per il parlamento europeo vogliamo sfidare la vostra pazienza. Pensiamo sia il momento giusto di interrogarci sul senso della democrazia, su cosa è diventata dopo quarant’anni di controrivoluzione neoliberale e su come potrebbe funzionare un sistema in cui tutti e tutte concretamente prendono parte alle decisioni collettive. Lo facciamo dopo un momento paradossale, teatro dell’assurdo, durante il quale chi si è recato alle urne ha contribuito a eleggere dei rappresentanti che non hanno concreta possibilità di influire sul processo legislativo europeo. Al tempo stesso, e qui la storia si fa ancora più ingarbugliata, i rappresentanti eletti su scala nazionale, quelli che in teoria avrebbero la possibilità di esercitare il potere legislativo, sbattono contro il muro di gomma dei trattati che hanno edificato l’Unione europea.

Questo vicolo cieco costituito dall’incastro tra gli organismi che tradizionalmente rappresentano la sovranità nazionale con quelli disegnati dalla governance europea viene descritto da Giuseppe Montalbano. Prima di lui, lo storico Luca Addante rievoca uno dei momenti in cui la contraddizione tra democrazia e capitalismo si manifestò: fu un secolo prima della Rivoluzione francese, in occasione della rivendicazione della generalizzazione del diritto di voto avanzata dai Levellers inglesi, nella seconda metà del Diciassettesimo secolo. Da una prospettiva diversa, legata agli assetti del capitalismo contemporaneo, anche la filosofa Donatella Di Cesare indaga il nesso tra sovranità e capitalismo, riflettendo sulle analogie tra nazionalismo e ossessione proprietaria. Marco Bertorello e Danilo Corradi mettono a verifica alcune delle ricette keynesiane che hanno funzionato negli anni del compromesso tra capitale e lavoro nel cuore del Novecento. Fino a che punto potrebbero funzionare nello scenario attuale? Marta Fana ed Emiliano Brancaccio ragionano del rapporto tra dimensione nazionale e sovranazionale nel contesto dello sfruttamento universale del capitalismo. E Simone Fana focalizza la sua analisi sulla rappresentanza e le relazioni industriali.

Lo svuotamento della democrazia, scrive Giacomo Gabbuti, passa anche per la circolazione di teorie neo-elitarie, che proprio in nome del politicamente corretto vorrebbero mettere da parte la massa di cosiddetti «analfabeti funzionali». David Broder sottolinea come la retorica della democrazia diretta sottovaluti l’importanza dell’organizzazione collettiva e dell’auto-formazione. Per Salvatore Cannavò, invece, la sfida di costruire nuovi istituti democratici che vadano oltre la rappresentanza è l’unico antidoto alle forme neo-plebiscitarie, e in fondo profondamente liberali, che prosperano approfittando della crisi della politica.

A questo punto ci siamo accorti che alcune delle caratteristiche antidemocratiche dei nostri tempi sono state descritte in forma iperbolica dalla letteratura distopica. Così abbiamo chiesto a Girolamo De Michele, Elisa Albanesi, Silvia Costantino, Davide Villani, Giuliano Santoro, Valerio Renzi e Luca Pisapia di ragionare attorno ad alcuni romanzi e al modo in cui ci aiutano a riconoscere come il potere agisce nelle nostre vite. Nell’inserto, trovate la prima pagina di un quotidiano, uno spaccato delle notizie che arrivano direttamente da un mondo distopico.

La controrivoluzione neoliberista ha rotto definitivamente ogni argine in senso antidemocratico quando ha messo davanti a tutto l’esaltazione della libera iniziativa privata, nelle ricette macroeconomiche come nella riproduzione delle forme di vita. Di questo si occupa Giuliano Santoro prendendo le mosse dal pensiero di Friedrich Von Hayek. Simone Pieranni affronta il tema della Cina e di come dalla Rivoluzione culturale di Mao sia arrivata a sperimentare una via antidemocratica al capitalismo. Miguel Mellino riflette sul razzismo e spiega come, nelle democratiche società occidentali, sia sempre stato non un’eccezione disdicevole ma elemento strutturale della produzione capitalistica. Ci sono poi forme di sopraffazione che non riconosciamo e che avvengono tutti i giorni sotto i nostri occhi: sono quelle di genere. I testi di Myra Marx Ferree e Sara Garbagnoli dimostrano come le tendenze sovraniste, xenofobe e reazionarie coincidano con l’ossessione di ripristinare l’autorità della «famiglia naturale». Marco Deseriis invece ricostruisce il rapporto tra piattaforme digitali e nuove forme autoritarie (spoiler: c’entra il controllo pervasivo e permanente). Infine, passiamo in rassegna alcuni casi in cui nuove forme di democrazia vengono sperimentati: l’autogestione produttiva, il confederalismo democratico, la democrazia dei beni comuni, il neomunicipalismo e la pianificazione democratica.

La sezione ripresa dal numero di Jacobin Magazine che esce contemporaneamente a noi negli Usa si occupa del diritto alla casa e delle lotte per l’abitare, temi centrali nella vita di tutti e tutte e decisivi nel deflagrare della crisi del 2008, legata ai mutui subprime. David Dayen affronta proprio questo aspetto, analizzando numeri e composizione sociale della tempesta finanziaria che ha spazzato l’abitazione di quasi 30 milioni di statunitensi. Laurie MacFarlane ripercorre il modo in cui Margaret Thatcher, con la scusa di garantire il diritto alla proprietà, ha dato il via anche in questo campo a un ciclo reazionario. Tutto ciò non ha mai trovato spazio nelle narrazioni mainstream, spiega Dawn Foster. Un’altra storia sotterranea e rimossa è quella delle occupazioni nel quartiere berlinese di Kreuzberg che racconta Loren Balhorn. Infine, una tavola rotonda tra attivisti nordamericani affronta il nodo di come lottare per il diritto alla casa.

Sorgente: Goodbye democracy – Jacobin Italia


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