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Dall’inizio del 2019 sono 145 le «morti bianche». «Un bollettino di guerra oramai, una strage silenziosa di cui non si parla» dice Marco Bazzoni

Marco Bazzoni non ha parenti vittime di incidenti sul lavoro, non è un sindacalista né un avvocato. A fare il giornalista non ci pensa nemmeno, tantomeno l’impiegato dell’Istat. È un semplice metalmeccanico. Ma al mattino, prima di andare a lavorare, c’è una cosa che deve fare: cercare se in tutta Italia ci sono stati morti sul lavoro. Quando il lavoratore non è citato si attacca al telefono e contatta tutte le fonti possibili per ricostruirne l’anagrafe. Su un foglio appunta il nome, l’età, la professione, la città in cui è avvenuto l’incidente, ossia la «morte bianca», come si chiama in gergo. E purtroppo non lascia mai una casella vuota.

Dall’inizio del 2019 le righe di quel foglio sono diventate 145. Ma non si limita a questo, a stilare un mero elenco di operai deceduti. Rintraccia i parenti, le storie che si nascondono tra le righe scarne di un lancio di agenzia di stampa o un trafiletto di giornale. Spesso gli scrive un messaggio di solidarietà o li chiama a telefono per assicurarsi che ottengano giustizia.

«Lo faccio per dare un supporto morale, fargli sentire una vicinanza. Non chiedo nulla in cambio perché è quello che sento giusto fare. Sarebbe il ruolo dello Stato, che invece li lascia soli» spiega Marco. Alcuni gli rispondono a brutto muso, lo scambiano per un curioso, un voyeur. Molti di più lo accolgono a braccia aperte, come manna dal cielo. Perché troppo spesso capita che i parenti delle vittime si trovino in situazioni paradossali, invischiati in vicende giudiziarie interminabili per accertare i responsabili delle morti dei loro cari. Oppure protagonisti di irreali vicende burocratiche.

Come quella capitata a Federica Barbieri. A lei e famiglia fu chiesto di restituire l’indennità ricevuta per la morte del padre, ucciso dall’amianto presente sul cantiere navale dove lavorava. Marco allora li aiuta con la sua principale dote: la perseveranza. Prende carta e penna e inizia a inviare lettere di protesta, denuncia, sollecitazione. A tutti. Persino al presidente della Repubblica e alla Commissione europea.

Ricordate le procedure di infrazione avviate dall’Europa nel 2011 contro quella che venne definita la «legge salva manager», cioè la norma che deresponsabilizzava i datori di lavoro in caso di incidente? Fu merito di questo quarantacinquenne metalmeccanico di Barberino Tavernelle, una frazione di poco più di diecimila abitanti in provincia di Firenze. Quando Marco Bazzoni si rese conto che molte delle vittime che conosceva non avrebbero ricevuto giustizia in virtù di quella legge, avviò una petizione mettendo in crisi tecnici e funzionari del ministero del Welfare.

Allo stesso modo è riuscito a ottenere giustizia anche per Federica Barbieri, divenuta una sua cara amica. Anche se la incontra per la prima volta insieme a noi. E’ un’esplosione di abbracci e di «…grazie infinite per quello che hai fatto». Perché, in seguito alle lettere di protesta di Marco, l’Inail dovette fare marcia indietro e rinunciare a farsi restituire il risarcimento (quasi duecentomila euro) per la morte del papà Mario. Oltre all’amicizia, Marco ci mette la conoscenza. Si sposta con un fascicoletto di appunti e il Testo unico per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro sotto il braccio.

Sceila Troian, però, ne apprezza le doti umane. E’ la sorella di Riccardo, morto in una cava, schiacciato da due lastre di marmo quando aveva soltanto 17 anni. Parlare con lei significa toccare con mano gli effetti visibili di una tragedia del genere. Nonostante siano trascorsi trentatré anni dall’incidente Sceila trema e versa lacrime a ogni parola. «Vorrei parlare della storia di mio fratello con più dignità, senza piange, ma non ci riesco. E’ il mio senso di impotenza e di ingiustizia che mi porto dietro, mi si ripercuote in tutto quello che faccio, nel lavoro come nella famiglia. Mi rimprovero di non aver fatto abbastanza e mi sento in colpa per aver accettato il patteggiamento dell’imprenditore».

A Bedizzano, frazione di Carrara, la vita ruota attorno al marmo. E’ pane sotto i denti, è l’argomento di conversazione, è l’espressione artistica di una comunità (l’ingresso in paese è caratterizzato da decine di statue in marmo). Ed è causa di morte. Che quasi sempre si archivia con un patteggiamento e un rimborso. Nel piccolo borgo non c’è famiglia che visitiamo senza un parente vittima di incidente in una cava. Molto spesso mortale. «Dalla morte di mio fratello non è cambiato niente. L’ultimo decesso è avvenuto l’anno scorso. Dovrebbero esserci manifestazioni in strada invece vedi che nessuno parla. A Carrara lo si considera parte del gioco, parte del prezzo da pagare. La morte sul lavoro qui è come un raffreddore, lo accetti e basta».

Marco salda le frasi spezzate dai singhiozzi di Sceila con continui abbracci e strette di mano. La rassicura, le dà una prospettiva. Il suo sogno sarebbe quello di intitolare una strada del paese al suo Riccardo. Vorrebbe tanto fare come Gloria Puccetti, la mamma di Matteo Valenti, morto in fabbrica a causa di un incendio che nessuno ha saputo spegnere, per mancanza delle misure di prevenzione e della formazione necessaria. Due anni fa Gloria è riuscita a installare una piccola statua in ricordo di Matteo, sul lungocanale in Darsena a Viareggio. «Ho un altro figlio che è venuto ad abitare proprio di fronte alla statua – racconta Gloria -. Quando esce con gli amici si dà appuntamento “davanti alla statua”, mangia vicino alla statua. E’ diventato il nostro punto di riferimento, il nostro modo per andare avanti. L’altro giorno è passata una ragazzina con il cellulare, si è fatta un selfie con lui, probabilmente senza sapere chi fosse. Io sono stata felice».

Sorgente: corriere.it

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