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ROMA – “Ernesto è a Regina Coeli”. Cinque parole, sempre le stesse, che Jole Mancini ripetè per giorni ai nazisti che la interrogavano per sapere dove fosse finito il marito partigiano, Ernesto Borghesi. Tra le SS che la torturavano nelle famigerate prigioni di via Tasso, c’era anche il boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke. Oggi Jole ha 98 anni e la voce stanca, spezzata a tratti. Non ha mai dimenticato i giorni della prigionia: quel carcere tedesco diventato luogo simbolo della Resistenza a Roma, Museo della Liberazione. Lì dove 73 anni fa vennero reclusi oltre 2000 antifascisti, torturati dalle Ss. E dove anche lei, staffetta partigiana, visse la sua personale resistenza, per amore di Ernesto, e della libertà.

Nel giorno dell’anniversario della Liberazione Jole partecipa, come ogni anno, alla manifestazione a Roma, organizzata dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani). Con lei tanti altri compagni della Resistenza. Come Mario Di Maio, “Nanetto” il suo nome in codice partigiano (“Non sono parente di Luigi”, ci tiene a precisare, scherzando), che ieri ha raccontato la sua storia a una sala vuota. O Tina Costa, staffetta come Jole, in Emilia Romagna.

Giacca rossa e fazzoletto tricolore al collo, dalla macchina che guida il corteo Jole racconta a Repubblica la sua storia e i suoi ricordi dolorosi. Che lei stessa tiene ad esternare. Solo così, dice, si può far comprendere “il sapore della libertà” ai giovani. Anche a quelli che hanno ignorato “Nanetto”.

“Mio marito venne tradito da un compagno arrestato durante una retata. Così cominciarono a cercarlo”. Comincia così il racconto di Jole, che negli anni della della Seconda Guerra Mondiale distribuiva volantini e consegnava munizioni ai compagni. Aveva sposato Ernesto da appena un mese, quando lui, partigiano e studente di medicina, venne arrestato durante un fallito attentato a Vittorio Mussolini, secondogenito del dittatore. Ernesto era poi riuscito ad evadere da Regina Coeli. “Il suo nascondiglio era il soppalco della bottega di mio padre in Piazza Mignanelli”, rivela Jole, ricordando come anche l’attività del genitore, il noleggio auto, fosse andata a rotoli dopo che i nazisti avevano sequestrato le macchine.

Poi fu il suo turno. “Arrivarono nel bel mezzo della notte – racconta Jole -. Dopo aver negato la presenza di mio marito in casa, fui portata nella piazza. Attesi per 20 minuti. Ero come paralizzata, gelata”. Milleduecento secondi, il tempo impiegato dalle Ss per bussare a tutti i portoni, senza ottenere risposta. A casa, ad aspettare il ritorno di Jole, c’erano le sue due nonne, “sfollate dai Castelli per le case bombardate”, il padre, la madre, il fratello e la nuora con la nipotina. “Il mio terrore, se avessero perquisito la casa, era che ci potesse essere un’ecatombe”.

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Jole a casa non tornò. “Mi portarono in Via Tasso, dove venni perquisita e interrogata”. Nelle cantine, in piedi, illuminata dalla luce di un faro. Per Jole iniziò la tortura. “Dopo quattro ore stavo per svenire, così smisero. Per tutto il tempo tenni un punto fermo. La versione: Ernesto è a Regina Coeli”. Poi il trasferimento in cella. “Mi diedero un cucchiaio e una ciotola di legno e mi lasciarono al terzo piano, in una stanza con tante donne, eravamo almeno 15, sedute per terra”. La prigionia cominciò così, senza lo spazio neanche per stendersi. Un vero supplizio. “Non potevi andare al bagno e sentivi le urla dei prigionieri torturati nelle cantine”. Solo dopo tempo Jole scoprì che l’ufficiale che l’aveva interrogata era il famigerato Erich Priebke, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

“Dopo qualche giorno sentimmo odore di bruciato. Erano i cannoni. Gli americani”. Un bagliore di speranza si accese nei prigionieri, e in Jole, fino al 3 giugno, la vigilia della liberazione di Roma da parte delle truppe statunitensi. “Sentii tanti rumori. Poi i tedeschi ci fecero scendere e io capii che ci stavano portando con loro per fuggire”, racconta quasi con le lacrime agli occhi. “Una parte dei reclusi salì su un primo camion. Insieme ad altre donne, io fui fatta salire sul secondo. Ma quel camion non partì”. Un guasto al motore, la salvezza di Jole. I prigionieri furno fatti scendere dall’autocarro e riportati nelle celle, dove attesero solo poche ore, fino all’alba del 4 giugno, per essere liberati dai soldati americani.

“Scoprimmo poi che i prigionieri del primo camion erano stati fucilati. Con il metodo nazista: un colpo alla nuca”. Tra loro, a perdere la vita in nome della Resistenza in quello che viene conosciuto come l’eccidio de La Storta, c’erano Bruno Buozzi e altri 11 italiani. Diverso l’epilogo della storia di Jole ed Ernesto. “Rividi mio marito il 7 giugno, tre mesi dopo il matrimonio”.

Ernesto Borghesi morì nel 1966. Da staffetta a vedova, Jole ricorda ancora come, “dopo tanti anni, ho ricevuto nel 2016 la medaglia d’argento al valore militare”. Quasi centenaria, con la voce stanca ma sempre con la stessa voglia, Jole trova sempre la forza per raccontare una vita segnata da episodi che “ancora non posso dimenticare”. Perché i giovani sappiano in quale luogo della memoria affondano realmente le radici italiane di una parola, bellissima, che Jole scandisce quasi illuminandosi: “libertà”.

Sorgente: “Priebke mi torturò in Via Tasso, ma non tradii il mio amore partigiano”. La staffetta Jole e la sua Resistenza – Repubblica.it