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Nel 1979 cominciò uno dei capitoli più controversi della storia giudiziaria repubblicana, con protagonisti i leader di Autonomia Operaia e il magistrato Pietro Calogero

Il 7 aprile del 1979, quarant’anni fa, decine di persone, appartenenti o simpatizzanti o considerate vicine alla formazione di sinistra extraparlamentare Autonomia Operaia, furono arrestate in un’operazione che diede inizio a uno dei capitoli più discussi e controversi della storia giudiziaria italiana degli scorsi decenni. Fu una vicenda che coinvolse centinaia di persone ma che ebbe come protagonisti, mediatici e non solo, da una parte l’intellettuale e attivista Toni Negri, dall’altra il magistrato Pietro Calogero. Come su tante altre questioni di quegli anni, gli arresti del 7 aprile – e soprattutto i processi che ne seguirono – provocarono divisioni nette e dolorose nella politica e nella società italiana, e ancora oggi non c’è un vero consenso storico sul caso, anche se le critiche a come il processo fu impostato e portato avanti negli anni sono diventate predominanti.

Autonomia Operaia era un movimento di estrema sinistra di ispirazione marxista e operaista che nacque nel 1973 in parte dall’esperienza di Potere Operaio, un altro gruppo che si era sciolto quell’anno e che era guidato tra gli altri da Negri, docente all’università di Scienze Politiche di Padova. Autonomia Operaia fu uno dei tanti movimenti extraparlamentari di quegli anni che portò avanti istanze di lotta rivoluzionaria con comizi, pubblicazioni e proteste, e che sviluppò al suo interno anche frange favorevoli a uno scontro violento con le istituzioni. Alcuni militanti di Autonomia Operaia nel corso del tempo si unirono a gruppi armati come Prima Linea o i Nuclei Operai Armati.

Il contesto degli arresti del 7 aprile era quello dei cosiddetti “anni di piombo”, delle stragi fasciste e del rapimento di Aldo Moro, l’importante dirigente della Democrazia Cristiana rapito e ucciso l’anno prima dalle Brigate Rosse in uno degli episodi più traumatici della storia repubblicana. Sull’omicidio si svilupparono vaste indagini e inchieste giudiziarie, e vennero adottate “leggi speciali” tra cui quella che permetteva di applicare il reato di associazione a delinquere alle organizzazioni politiche, e non solo a quelle mafiose.

Fu su queste premesse che il magistrato siciliano Pietro Calogero, della procura di Padova, sviluppò quello che la stampa chiamò “teorema Calogero”: cioè che una serie di intellettuali, docenti universitari, giornalisti e militanti dell’area riconducibile ad Autonomia Operaia avesse diretto le operazioni delle Brigate Rosse, portando avanti un progetto di eversione armata. Alla base della tesi di Calogero c’era la dibattuta questione dei rapporti tra la propaganda e gli scritti dei molti e influenti intellettuali di estrema sinistra dell’epoca e le azioni di terrorismo politico che proliferavano in quegli anni.

La cosiddetta “predicazione all’eversione” era considerata da molti in realtà come un’attività di protesta che, nel contesto di quegli anni, rientrava nell’esercizio delle libertà politiche, pur condividendo significative responsabilità dell’inasprirsi delle tensioni sociali per via dei frequenti inviti alla violenza, responsabilità riconosciute poi in diversi casi dai loro stessi autori. Ma secondo il magistrato, quelle responsabilità andavano ben oltre: Calogero credeva infatti che esistesse un collegamento diretto e materiale tra alcuni movimenti politici extraparlamentari di sinistra e le bande armate del terrorismo rosso.

Tra le decine di persone indagate e arrestate ci furono Negri, Oreste Scalzone ed Emilio Vesce. Franco Piperno e Lanfranco Pace sfuggirono all’arresto andando in Francia. Le accuse andavano dall’associazione sovversiva all’insurrezione armata, ma in certi casi erano molto precise: Negri per esempio fu accusato di aver partecipato direttamente al rapimento Moro, e addirittura di essere stato il telefonista delle Brigate Rosse che condusse le trattative. In realtà si dimostrò dopo che la voce brigatista era di Valerio Morucci. A Negri fu rivolta anche l’accusa di “mandante morale” del rapimento, ma anche in questo caso cadde insieme a quelle di altri omicidi a lui attribuiti, da quello dell’ingegnere milanese Carlo Saronio a quello del giudice Emilio Alessandrini.

Il processo si svolse con tempi lunghissimi, e secondo molti attivisti – e anche secondo Amnesty International – in violazione dello stato di diritto: Negri, insieme ad altri imputati come Scalzone, fu detenuto preventivamente in carcere per anni, e il processo cominciò soltanto nel 1983. In primo grado Negri fu condannato a 30 anni per associazione sovversiva, banda armata e diversi altri reati, ma fu prosciolto dall’accusa di insurrezione armata.

Prima dell’appello, Negri accettò la proposta del politico radicale Marco Pannella di candidarsi alla Camera, venendo eletto e uscendo per questo dal carcere grazie all’immunità parlamentare. Nel settembre del 1983, Negri fuggì in nave in Francia: inizialmente parlò di un gesto politico assicurando che sarebbe rientrato in Italia, ma dopo qualche anno cambiò idea e decise di approfittare della cosiddetta “dottrina Mitterrand” – con cui la Francia dava ospitalità e sicurezza, rifiutando le estradizioni, a chi lasciasse la lotta armata e la violenza – rimanendo latitante. Questo fece arrabbiare molto Pannella, e attirò le critiche di molti che in precedenza lo avevano sostenuto.

In molti, da Giorgio Bocca a Rossana Rossanda, criticarono duramente lo svolgimento del processo, considerandolo ingiusto e disumano nei confronti degli imputati a cui, secondo molti, non furono assicurate le garanzie alla base di un sistema giudiziario fondato sullo stato di diritto. Ma negli anni le critiche hanno riguardato sempre più l’impostazione alla base del processo, dall’affidamento fatto sulle testimonianze dei “pentiti” – pratica spesso contestata nei processi sul terrorismo politico – alla tesi di fondo che mirava ad attribuire responsabilità materiali nel terrorismo politico agli intellettuali di estrema sinistra che non parteciparono direttamente ai gruppi armati.

Alla fine le pene dei principali condannati nel processo del 7 aprile furono ridotte in appello e poi confermate in Cassazione: in tutto Negri ricevette 12 anni, Scalzone 8 anni, Pace e Piperno 4 anni. La giustizia ritenne dunque colpevole i leader di Autonomia Operaia di eversione e di banda armata, ma non trovò prove del “teorema Calogero” sui collegamenti con le Brigate Rosse e con i moltissimi omicidi e sequestri a loro inizialmente attribuiti. Negri rientrò in Italia nel 1997, costituendosi e scontando i rimanenti anni di carcere. Scalzone, che a sua volta era fuggito in Francia nel 1981, ci rimase fino al 2007 quando i suoi reati furono prescritti, così come fece Pace. Piperno, che per un periodo rimase latitante in Francia e in Canada, rientrò a sua volta in Italia e scontò la parte rimanente della pena.

Sorgente: Gli arresti del 7 aprile, 40 anni fa – Il Post

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