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Il primo partito di governo, il più votato dagli italiani un anno fa, il 4 marzo 2018, ha affidato agli iscritti di una piattaforma web gestita da una società privata il compito di decidere «se permettere al potere legislativo di concedere al potere giudiziario di processare il potere esecutivo», come ha scritto con brillante sintesi il padre gesuita Francesco Occhetta, uno degli osservatori più sensibili del nostro paese, il notista politico della rivista Civiltà cattolica.

Il principale partito dell’opposizione, alla vigilia delle primarie che sceglieranno il nuovo segretario dopo un anno di vuoto, si divide sull’inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari i genitori, il papà e la mamma, del precedente leader, l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, impegnato in questi giorni a girare per l’Italia per lanciare il suo ultimo libro e rilanciare la sua leadership. Il ministro dell’Interno, in questo momento l’uomo più potente d’Italia, se la ride, ostenta generosità con gli alleati del Movimento 5 Stelle che lo hanno salvato da un processo insidioso per sequestro di persona e con gli avversari del Pd, assicurando di non aver brindato per i guai giudiziari della famiglia dell’altro Matteo. Intanto, il presidente del Consiglio attualmente in carica sembra sparito, dopo qualche settimana di protagonismo mediatico. E i dati economici ci parlano di una nuova catastrofe in corso: la caduta del fatturato industriale, con l’effetto a catena sull’occupazione e gli esuberi in grandi gruppi, in un quadro di recessione, sempre negata e ora feroce.

Sono i frammenti di cronaca di questa settimana, il materiale con cui noi giornalisti costruiamo il nostro prodotto artigianale. Pezzettini di realtà che a volte si affollano in modo confuso, che spesso sfuggono ai tentativi di trovare una linea che unisca i puntini, un senso complessivo delle cose. Tutti questi segnali di crisi ci riportano indietro nel tempo. Qualcuno ha tirato in ballo il 1992, perché fu esattamente il 17 febbraio di quell’anno che l’arresto del quasi sconosciuto ingegnere Mario Chiesa per una tangente di sette milioni di lire scatenò, come lo sparo di Sarajevo, il crollo del sistema politico fondato sui partiti e l’inizio di una lunga stagione di conflitto della politica con la magistratura. In un anno, ma questo non lo ricorda nessuno, segnato dal mercoledì nero nel mese di settembre sui mercati valutari e dall’uscita della lira dal Sistema monetario europeo e da una manovra economica drammatica da 30 mila miliardi di lire, firmata dal governo di Giuliano Amato. Ma le vicende di queste settimane ci riportano ancora più indietro. Tornano a indicarci alcuni nostri mali storici: il difficile equilibrio tra le istituzioni, le classi dirigenti irresponsabili, il rapporto malato tra lo Stato e la società. Ci parlano di una crisi più complessiva e grave, di una democrazia che di nuovo non è più un dato acquisito per tutti i cittadini.

Democrazia fragile, si diceva un tempo dell’Italia, democrazia a rischio. Tutti i principali leader repubblicani, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, Pietro Nenni, Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, si sono confrontati con questo contesto, provando a dare soluzioni diverse. Più rappresentanza della società nello Stato, governo condiviso tra le principali forze politiche che avevano scritto la Costituzione, oppure cambiare le regole per avere più velocità e più forza nelle decisioni.

Siamo un sistema anomalo, si ripeteva, dobbiamo diventare un paese normale, per segnare la differenza tra l’Italia e i vicini dell’Europa occidentale, di cui un bel pezzo del nostro establishment invidiava tutto: la stabilità dei governi, il meccanismo dell’alternanza tra gli schieramenti alternativi, ordinato e senza strappi nel rispetto della continuità della politica estera e delle regole dell’economia di mercato.

Alla prova della storia, in realtà, le nostre istituzioni repubblicane si sono rivelate più resistenti di quanto sembrasse, sono riuscite nella seconda metà del secolo scorso a garantire il passaggio dell’Italia da un’economia sottosviluppata a solida potenza industriale, con il suo reticolo di piccole e medie imprese. Ma è rimasta una fragilità del sentimento democratico, il cattivo rapporto tra i cittadini e lo Stato percepito sempre come un nemico, la politica vissuta come assente dove ce ne sarebbe stato bisogno, il buon funzionamento della scuola o della sanità pubblica o dell’amministrazione per esempio, e fin troppo presente e addirittura soffocante laddove avrebbe dovuto astenersi dall’intervenire, nella spartizione degli incarichi, nella lottizzazione delle aziende di Stato e dell’informazione pubblica, nella richiesta di finanziamento per i partiti e per i politici, lecito e soprattutto illecito.

La novità dell’ultima stagione è che l’Italia non è più isolata. Il modello democratico è entrato in crisi nel resto d’Europa. L’Inghilterra, patria ideale della democrazia rappresentativa e del bipartitismo perfetto, si avvia alla Brexit no deal, nella paralisi e nell’incapacità di trovare un accordo con Bruxelles, mentre le vecchie famiglie politiche si dilaniano, con i conservatori divisi a metà e i laburisti in fuga da Jeremy Corbin.

In Francia il presidente Emmanuel Macron prova a recuperare un rapporto con il paese profondo e con l’opinione pubblica, ma intanto ritorna un ospite indesiderato, l’anti-semitismo. La Spagna, governata negli ultimi mesi dal premier socialista Pedro Sánchez, torna al voto politico per la terza volta in quattro anni, con la destra mai così compatta e arrogante e con la riesumazione, il disseppellimento di tutto ciò che era stato rimosso dalla morte di Francisco Franco in poi. Rinascono i nazionalismi, quello catalano ha riportato in vita quello iberico che si nutre dei miti della reconquista, ne parliamo con Javier Cercas sul nuovo Espresso.

Resiste la Germania, ma Angela Merkel è a fine corsa. E i sondaggi sulle prossime elezioni europee danno un Parlamento senza la storica maggioranza popolari-socialisti, l’asse che ha retto per decenni la politica dell’Unione. I sovranisti crescono ovunque, non avranno la maggioranza numerica, ma non è una consolazione, perché potrebbero conquistare l’egemonia politica e costringere i moderati a un’alleanza che li snaturerebbe in modo definitivo. È finita la politica dell’inevitabilità, come lo storico americano Timothy Snyder ha definito la convinzione degli anni passati che la democrazia fosse un destino necessario, senza alternative, e all’interno di essa le regole del capitalismo, la filastrocca che recita «la natura ha prodotto il mercato, che ha prodotto la democrazia, che ha prodotto la felicità». Al suo posto, ha scritto Snyder in “La paura e la ragione” (Rizzoli), c’è la politica dell’eternità, il richiamo al suolo, la terra, le radici. Il collante ideologico dei sovranismi europei e del loro punto di riferimento, la Russia di Vladimir Putin. Una potenza in grado di condizionare le democrazie europee in crisi: con ingenti flussi di finanziamento centralizzati, in mano agli oligarchi che comandano a Mosca e che ruotano attorno allo zar del Cremlino, e con l’influenza sulla comunicazione per spostare l’elettorato al momento del voto.

Avanza un modello oscuro, che si nutre delle parole democrazia e popolo, e ne svuota il significato dall’interno. Un modello che rifiuta i contrappesi liberali, il controllo di legalità esercitato dalla magistratura autonoma e indipendente e la critica della libera stampa non asservita. Nel no della Lega e del Movimento 5 Stelle all’autorizzazione a procedere per il ministro Matteo Salvini c’è la difesa sfacciata della categoria dell’abuso di potere, quello che il tribunale dei ministri di Catania attribuisce all’uomo del Viminale che ha tenuto ferma la nave Diciotti con 177 migranti a bordo. Il potere deriva dal popolo e dunque non può essere controllato né giudicato. In questa Europa dove è messa in pericolo la verità, la possibilità di cercare la verità e di dirla, l’Italia non è più un’anomalia. È il laboratorio in cui si sperimenta il futuro.

Ce lo racconta l’inchiesta di copertina di questa settimana. Giovanni Tizian e Stefano Vergine accendono una luce sul lato nascosto del viaggio a Mosca del ministro Salvini il 17 ottobre. Cosa è successo in quelle dodici ore di buco della visita? Salvini, interpellato dai nostri giornalisti, non ha risposto alle domande sull’incontro segreto, fuori dall’agenda ufficiale, di Salvini con Dmitry Kozak, vice-premier con delega all’energia, uomo di strettissima fiducia di Putin, nell’ufficio dell’avvocato Vladimir Pligin, e della cena che è seguita.

Conosciamo tutto di Salvini, nulla sui suoi social ci viene risparmiato dei suoi pranzi e delle sue cene, ma di questo convivio non c’è traccia. Sappiamo però, e lo documentiamo, che la mattina dopo Gianluca Savoini, già portavoce del capo leghista, l’ambasciatore di Salvini con i russi, incontrò insieme ad altri due italiani nella hall dell’Hotel Metropol il manager Ylia Andreevich Yakunin, vicinissimo all’avvocato Pligin.

Si parlò di una mega-partita di gasolio e di un finanziamento per la Lega, da far arrivare per la campagna elettorale in vista del voto europeo di maggio. «La nuova Europa deve essere vicina alla Russia», spiegò agli interlocutori Savoini. Lo spettacolo servile di un sovranista che omaggia e si prostra di fronte a una super-potenza straniera, in un contesto di personaggi che si richiamano alla purezza delle tradizioni, con il contorno di omofobia e di attacchi a quei diritti civili e individuali che sono il fondamento dell’Occidente. L’affare alla fine potrà essere sfumato, ma resta una esigenza di trasparenza di fronte all’opinione pubblica. Di un ministro che a casa si presenta come difensore dei sacri confini e che piega invece gli interessi nazionali alle sue convenienze. Di una rete di movimenti, partiti, leader che vanno all’attacco della vecchia estenuata Europa, e di quel che resta in piedi del sistema democratico, così come lo abbiamo conosciuto. C’è una doppia fedeltà di Salvini e dei suoi amici europei, alla Nazione e a Putin, che va raccontata e svelata.

Di quel sistema facciamo parte anche noi, la libera informazione, il giornalismo critico. Questo è il primo numero del nuovo Espresso, che inaugura una nuova stagione di vita per il nostro settimanale. I lettori ci chiedono sempre di più l’approfondimento, l’analisi, le inchieste, un’autorevolezza e un’autonomia e indipendenza di pensiero. Ci chiedono di raccontare e di accompagnare un percorso di modernità: la scienza, l’innovazione tecnologica, le sfide del presente e del futuro. Il mondo sempre più vicino. La nuova classe dirigente, nel segno del rinnovamento e del cambiamento. Le battaglie di sempre, le donne, i giovani, l’ambiente, la legalità, e i nuovi diritti civili e sociali, da diffondere e riconoscere. I migranti, la pace e la guerra, l’economia in un mondo globalizzato. In più, è l’esperienza che abbiamo fatto insieme in questi mesi, i lettori vogliono dall’Espresso una visione politica della realtà, oltre che un racconto della politica. Un racconto che metta in connessione quello che la rete per sua natura frammenta. Un’interpretazione autentica, onesta, appassionata. Un coinvolgimento, una tensione, una identificazione. E dunque un luogo editoriale dove ritrovarsi. Una casa di carta che rappresenti un punto di incontro.

Cominciamo a farlo da questo numero, con un giornale più denso e compatto. Ad aprire c’è la parola chiave della settimana, affidata a una firma. Sarà il nostro vocabolario, partiamo con “Insieme” di Michela Murgia. Una prima pagina, in cui sono affrontati i temi dell’attualità politica, economica, internazionale. Le opinioni di Roberto Saviano e di Aboubakar Soumahoro, la satira di Altan, Michele Serra e Makkox. Una sezione centrale chiamata Idee, con i dibattiti, le polemiche, le battaglie culturali: cominciamo dall’Europa, il nostro destino, con Massimo Cacciari e Javier Cercas, il reportage di Matteo Nucci da Atene, e con una conversazione tra Wlodek Goldkorn e Donatella Di Cesare sul ritorno di Karl Marx. Una parte finale dedicata alle storie, dall’Italia e dal mondo: in questo numero, tra le altre, Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi fotografano per parole e immagini i profughi siriani in Libano, Fabrizio Gatti racconta Genova ferita in una sola persona, Sabina Minardi intervista la giovane artista Silvia Calderoni.

Attualità, inchieste, idee, storie. Il giornalismo, dicevo, è un mestiere artigianale: rimettere insieme la realtà partendo dai suoi frammenti. Ed è, allo stesso tempo, un’operazione intellettuale, come ci ha insegnato a fare Eugenio Scalfari: richiede un contesto, una ricucitura, una spiegazione. La verità non è mai conquistata una volta per tutte, è una ricerca continua dell’altro, come la democrazia. E in tempi di sovranismi, c’è bisogno di un’identità sicura di sé e delle proprie idee, ma aperta, disposta a mettersi in gioco. Mobile, come le pagine di un giornale.

Sorgente: La verità, oltre il buio (di Marco Damilano) – l’Espresso

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