0 12 minuti 5 anni

Tempo di bilanci di fine anno e di auspici per l’anno nuovo: stavolta però domina l’incertezza, il futuro ci viene offerto a rate, a pezzi e bocconi, come la finanziaria. Per fortuna segni di resistenza al neoliberalismo e alla sua variante sovranista si moltiplicano fuori e dentro i nostri confini

Lucio Dalla era presago. La pacchia è finita. Si esce meno la sera e sono serate al peperoncino spray. Dilagano post e tweet di chi non ha niente da dire e pancia da sfogare. Ma televisione e dirette facebook esaltano il cambiamento inarrestabile: per ora Cristo non scenderà dalla croce né i profughi dalle navi, ma la povertà è stata abolita e gli inoccupati autoctoni avranno tutti ben tre offerte di lavoro vicino a casa, Isee consentendo. Sarà tre volte Natale… Su ponti e viadotti si ballerà e mangerà a sazietà. Gli uccelli non sempre faranno ritorno, ma gli F35 sì. È un momento storico e ci possiamo pure ridere sopra – senza dubbio. Almanacchi, almanacchi nuovi, lunari nuovi!

Non dappertutto è così. E quindi anche a casa nostra potrebbe andare diversamente. Il soufflé neoliberale si sta sgonfiando e piccole crepe si aprono in varie zone del mondo senza che una linea di faglia li unisca: Stati Uniti, Argentina, Ungheria, Francia. Le Alpi non saranno un ostacolo invalicabile e già qui metà del cielo è in movimento.

Cos’è cambiato e inaugura un grado zero sociale che rende arduo muoversi con i vecchi paradigmi esplicativi? La composizione del lavoro e delle classi sociali, in primo luogo, un processo molecolare che dura ormai da decenni, e poi un’accelerata disgregazione di sistemi istituzionali e assetti politici che invece ha avuto tempi molto rapidi e si innestato in modo rovinoso proprio sull’ultima ondata di fenomeni politici che ancora potevano collegarsi al vecchio mondo: la crisi economica del 2008, i movimenti di lotta “indignati” del 2010-2011, le primavere arabe, il nuovo femminismo che sta diffondendosi dall’Argentina alla Spagna, dagli Usa all’Italia.

Espressione politica del dissesto è una crescente disaffezione alla democrazia rappresentativa (dove c’era e dove a fatica stava decollando, come nell’Europa dell’Est) e il successo del populismo, anzi di varie forme di populismo, di cui all’Italia sono toccate le peggiori, quella sovranista e razzista e il pastrocchio centrista pentastellare.

Il governo che tiene insieme in Italia le due varianti populiste è precario, fa male alla salute e avvantaggia la componente sovranista di destra, meglio attrezzata e più in sintonia con il mainstream di Washington e Visegrad. Ma il vizio di origine è un altro e paradossalmente imputabile più alla componente 5 Stelle, che ci rimette, che alla componente leghista, che ci guadagna.

Il populismo storico ottocentesco, quello latino-americano di metà Novecento e cavallo del secondo millennio e quello contemporaneo di sinistra in Spagna e Francia sono movimenti di lotta e di strada, di confronto faccia a faccia fra le varie componenti e con il potere delle élites e dello stato, con produzione di idee e ragionamenti a stampa e, oggi, con il supporto marginale della Rete, in primo luogo, e dei mezzi audiovisivi. Il populismo italiano dei 5 Stelle, che più si avvicina a quei modelli, distinguendosi dal sovranismo prima padano poi nazional-razziale della Lega, si caratterizza invece per l’idolatria sprovveduta della Rete e per il rifiuto di qualsiasi lotta di piazza, finendo per esaurirsi in pratiche elettorali e all’occupazione del governo a ogni costo, con qualsiasi alleato e compromesso di programma.

Grillo e Casaleggio jr., padroni più che ispiratori del MoVimento, si vantano di aver evitato il dilagare dei fascisti e dei Gilet Gialli spaccatutto. Ebbene, con i fascisti o quasi ci stanno governando senza problemi, mentre i Gilet Gialli hanno ottenuto in un mese, usando tutto l’armamentario tradizionale o innovativo dei conflitti, più di quanto promettono a vanvera da   mesi i populisti de noantri. Compresa la rapidissima concessione del fatidico 3% di Maastricht da parte di una commissione UE preoccupata dalla rivolta sociale nel cuore dell’Europa. La lotta spaventa e paga più di post e tweet.

Dopo aver sbraitato contro l’Europa, il governo ha innestato una retromarcia rapidissima svendendo le velleità (invero vuote) di “manovra del popolo” e ha fatto approvare dalla Camera con la fiducia una scatola vuota che ha riempito poi al Senato, sempre con fiducia, con un maxi-emendamento che nessuno ha fatto in tempo a leggere. Il contenuto è filtrato a comode rate: prima lo sforamento del deficit al 2,04% (sic!) rispetto al 2,4% annunciato istericamente dal balcone di palazzo Chigi, poi l’assegnazione di 7,1 miliardi di euro (rispetto ai 9 iniziali) per il reddito di cittadinanza – in realtà 3,6 miliardi, sottraendone 1 per il potenziamento dei centri per l’impiego e 2,5 per il rinnovo del Reddito d’inclusione. Il che – quali che siano i criteri tuttora ignoti per godere dell’allocazione – restringerà per forza la platea dei beneficiari, che comprende anche le pensioni al minimo inferiori ai 780 €. Altro che i 5 milioni di persone previste, che comunque sono meno dei 7 milioni di poveri assoluti e relativi. Resta indeterminato anche se i soldi, decurtati in base all’Isee, andranno agli interessati o, almeno in parte, alle imprese che li assumerebbero (versione “populista” dell’elitaria “decontribuzione” del JobsAct renziano). Nubi oscure si addensano all’ultimo minuto sulla “congruità” dell’offerta e sugli obblighi di trasferimento senza limiti geografici per i percettori. Le bozze che circolano sono terrificanti.

4,7 miliardi di euro (contro 6,7 previsti) andranno alla quota 100, che dovrebbe abolire la Fornero. Anche qui i criteri sono ignoti e sicuro invece che chi riuscirà a rientrare nelle finestre previste nella seconda metà del 2019 ci perderà dal 10% al 25% delle spettanze più tre anni di dilazione per il Tfr e quindi in molti casi ci rinuncerà. Resta l’aggancio dell’età pensionabile alla media dell’aspettativa di vita, così continueremo ad andare in pensione (piena) all’età più alta in Europa!

Saranno intaccate le pensioni d’oro sopra i 4000 € netti, con un risparmio di 100 milioni circa, ma ben 250 milioni verranno dal blocco graduato dell’indicizzazione delle pensioni superiori a 1000 € netti, che proprio d’oro non sono. Verrà incentivato temporaneamente con un’aliquota Irpef del 7% chi si è trasferito all’estero dove non paga tasse, ma solo per tre anni e a patto che rientri in un piccolo paese nel Meridione. Vedo già la coda di chi abbandona Portogallo, Tunisia, Bulgaria, Canarie…

La manovra, per la parte finora scritta, assomiglia assai a quelle di austerità, con privatizzazioni e dismissioni (indeterminate e forse truccate), tagli all’università, blocco del turnover nel pubblico impiego sino a fine 2019 (altro che sostituzione di tre giovani ogni pensionato sfuggito alla Fornero), scarsi investimenti produttivi e odiose misure discriminatorie – l’1,5% di tassa sul money transfer dei migranti, cioè su guadagni già tassati alla fonte, 118 milioni dal raddoppio dell’Ires sugli enti assistenziali non profit, ecc. Il tutto sotto la spada di Damocle di un gigantesco aumento dell’Iva come clausola di salvaguardia qualora non si raggiungano gli obbiettivi di riduzione del deficit, ancorati alla previsione fantascientifica di un aumento del Pil dell’1% annuo (prima della retromarcia si ipotizzava addirittura l’1,5). Il che vuol dire scaricare l’odiosità della misura sulla prossima finanziaria e sul prossimo governo –  in soldoni più di 30 miliardi nel prossimo biennio.

Il “governo di cambiamento” asseconda le smanie leghiste di rendere difficile la vita a poveri e migranti, mantenendoli disperati per strada così da poter sempre evocare a fini elettorali l’emergenza e l’odio che ne deriva, delude invece le promesse pentastellate di abolire povertà, disoccupazione e corruzione, con annesso beffardo bollino: FATTO!  Governo destinato a durare poco e cui succederà, data l’inconsistenza suicida del Pd, o un governo tecnico presidenziale e penitenziale o una netta maggioranza di destra a trazione salviniana. Il clima populista risulta non da una manovra assai tradizionale o dall’audacia del governo (rissoso e smorto quanto nella I Repubblica) ma dal consenso elevato e stabile nei sondaggi, a indicare lo scoramento e la rassegnazione di un “popolo”, che evidentemente sta ancora rigettando tutte le ricette del passato e si aggrappa alla speranza di un ”cambiamento” qualsiasi.

Le prospettive restano nebbiose, dunque, anche per la prossima stagione, sebbene l’attuale consenso di massa al governo (più alla Lega che ai 5 Stelle) cominci a deteriorarsi e potrebbe crollare altrettanto repentinamente di quello al governo Renzi. La nuova composizione sociale e politica è fluida assai e le vicende francesi, ancora ambigue sulla natura dei movimenti di opposizione (su cui peraltro scommettiamo), sono chiarissime sul dissolvimento del consenso a Macron e sul crollo del mito neoliberale. Il populismo all’italiana potrebbe imboccare la stessa strada prima del previsto, senza un ritorno al neoliberalismo targato Pd o Forza Italia. I Gilets Jaunes indicano un’altra (enigmatica) possibilità. Su cui, appunto, “scommettiamo”.

Non sappiamo se yellow is the new red, forse no. O se si sta delineando davvero un qualche contropotere, come suggeriscono in tono appena diverso le voci autorevoli di Étienne Balibar e Toni Negri.

Di sicuro è tempo di prendere congedo dal rimpianto del lungo 1968 e dei movimenti che l’hanno riproposto per slittamenti molecolari e di volta in volta rilanciato dentro una composizione di classe in via di totale e a volte indecifrabile mutazione. il “cattivo nuovo” che subentra al buon vecchio antico è il solo terreno praticabile se si vuole restare vivi e conflittuali, se si vogliono “citare” e rimettere all’odg gli episodi salienti di un passato di lotta. Come in Francia sono riusciti a “commemorare” degnamente il ’68 per le strade di Parigi, Marsiglia, Bordeaux e sulle rotatorie della provincia.

«C’è stato un tempo in cui avevamo veramente tutto nelle nostre mani […] abbiamo avuto l’occasione di cambiare tutto» – dice Deeffenbaker a Sully nel sottofinale di Cuori in Atlantide di Stephen King, il grande romanzo sul ’68, il Vietnam, i Weathermen – anche se ci siamo accontentati di miserabili cambiamenti nello stile di consumo. E conclude: «Sai qual è il prezzo che si paga svendendo il futuro? Non poter mai veramente lasciare il passato».

Non soffermiamoci perciò su commemorazioni e paradigmi ingestibili, ma cerchiamo di andare avanti, anche a tentoni.

 

Suvvia, riascoltiamo la canzone, https://www.youtube.com/watch?v=ttfz1Xj-XWA

E auguriamoci, con leopardiano disincanto e senza merito, un qualche evento sociale imprevisto che ci tiri fuori dalla palude:

«Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

Il venditore. Appunto. Almanacchi, almanacchi nuovi, lunari nuovi!»

Sorgente: L’anno che verrà: a rate – DINAMOpress

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20