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Israele (Internazionale) Feriti e malati da Gaza affidati alle associazioni, senza fondi né protezione speciale. Appartamenti trovati dal terzo settore, ma qualcuno finisce nei Cas. Raccolte fondi dal basso per coprire le spese. E il governo preme: chiedete l’asilo politico.

Di Chiara Cruciati

Al San Camillo di Roma è ricoverato un ragazzo palestinese di 18 anni: è rimasto ferito nel bombardamento della sua casa a Gaza, ha perso 25 parenti e ha una frattura delle vertebre. Sempre a Roma c’è una donna: ha perso una gamba, un braccio e due figli. Era incinta quando un raid israeliano ha centrato casa sua. Soltanto pochi giorni fa ha avuto notizie del marito e degli altri due figli: sono a Rafah, sono ancora vivi.

TRA IL 29 GENNAIO e il 10 marzo sono arrivati in Italia 157 palestinesi di Gaza. Tre gruppi a bordo di un C130 dell’Aeronautica militare, un quarto con la Nave Vulcano. Le missioni di evacuazione di 62 malati cronici e feriti di guerra, adulti e bambini, e di 95 accompagnatori sono state sponsorizzate dal governo italiano. Questi i numeri forniti dalla difesa, secondo il ministero degli interni si parla di 148 persone: 78 malati, 70 accompagnatori.

La confusione sui dati è parallela a quella sullo status da riconoscere agli evacuati: la loro gestione poteva essere diversa da quella che appare come una manovra di propaganda, più che di reale accoglienza.

Mentre con una mano tagliava i fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa e depotenziava la Cooperazione italiana impegnata in Palestina, con l’altra il ministro degli esteri Tajani lanciava potenziali iniziative internazionali (Food for Gaza) e il ruolo italiano nel soccorso a persone a cui l’offensiva israeliana ha tolto tutto. Per buona parte i palestinesi bisognosi di cure sono malati cronici che con l’inizio dell’offensiva hanno visto sbriciolarsi il sistema sanitario di Gaza: ospedali chiusi per bombe e assenza di strumentazioni, medicine che non entrano, terapie sospese.

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Altri sono feriti di guerra. Sono stati accolti in diversi ospedali italiani: a Roma al Bambin Gesù, al Sant’Andrea, al San Camillo e al Sant’Eugenio, al Gaslini di Genova, al Meyer di Firenze, al Niguarda di Milano, al Rizzoli di Bologna. Per molti si è trattato di ricoveri «veloci»: una volta ricevuta la nuova terapia, sono stati dimessi. Soltanto il 10% sarebbe ancora in ospedale.

Mappare la loro presenza non è facile. Sono stati distribuiti su tutto il territorio nazionale e a chi li rappresenta – l’Ambasciata palestinese di Roma – il governo italiano non ha fornito una lista completa né le date di arrivo delle missioni. A coordinare le partenze sarebbero le ambasciate italiane al Cairo e a Gerusalemme. Quella palestinese sta cercando i suoi connazionali, famiglia per famiglia. Non conosce nemmeno i criteri di selezione: chi parte per l’Italia e perché.

SUI PRIMI VOLI c’erano nuclei familiari più ampi, negli ultimi ogni malato aveva con sé un accompagnatore. Chi li segue denuncia anche casi di separazioni: famiglie divise a metà, un pezzo in Italia e un pezzo in Turchia o negli Emirati arabi.

A quei 148/157 palestinesi l’ambasciata italiana del Cairo ha rilasciato d’urgenza visti turistici di 90 giorni. I primi sono in scadenza a fine aprile. Cosa accadrà dopo? A prendersene cura al momento sono le associazioni del terzo settore. Il primo volo, il 29 gennaio, era già atterrato quando il telefono di Arci, Sant’Egidio, Chiese evangeliche italiane e Caritas ha squillato: ci sono famiglie da accogliere.

«Siamo stati chiamati dall’Unità di crisi della Farnesina – spiega Valentina Itri dell’Ufficio Immigrazione dell’Arci, che segue due nuclei familiari a Genova e due a Roma – È stato il ministero della salute a collocarli nei vari ospedali. Il problema era dove mettere gli accompagnatori. Sono stati inviati al terzo settore, in alcuni casi come a Genova sono stati portati nel Cas tramite la prefettura».

Il ministero degli interni ha convocato tavoli con le associazioni che in quella sede hanno chiesto che «venisse riconosciuta ai palestinesi evacuati la protezione come già fatto in altri casi precedenti, così da essere subito inseriti nel percorso d’accoglienza. Dopo 90 giorni sarebbero illegali su suolo italiano, perderebbero l’accesso al sistema sanitario».

Per questo, dicono da più parti, sui palestinesi sono iniziate pressioni: chiedete l’asilo politico. Alcuni lo hanno fatto, un paio di famiglie seguite dall’Arci e una decina di persone da Sant’Egidio. Altre no, temono che finita la guerra non potranno tornare a Gaza.

«Sono disorientate, hanno paura – aggiunge Itri – Lo Stato aveva tempo per organizzarsi. Il muro più scandaloso è quello degli interni: non gli dà uno status e li ha affidati al terzo settore. E siamo senza risorse, non ci danno sostegno finanziario».

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IL MINISTERO spiega che è in corso un lavoro di convincimento sulle famiglie perché chiedano la protezione internazionale, a frenare è la paura di non poter tornare a Gaza. Secondo il ministero, in quanto soggetti vulnerabili, potrebbero accedere al sistema di accoglienza Sai una volta dimessi dagli ospedali. Avverrà quando di posti se ne libereranno: in 16 sono stati accolti nei progetti Sai a Bologna e Milano ma perché il processo inizi, insiste, va fatta richiesta di protezione internazionale.

Se ci fosse stata volontà politica, lo strumento si sarebbe trovato. Se per i profughi ucraini a disposizione c’è una direttiva europea, la n. 55, che ha permesso di riconoscere la protezione speciale immediatamente, in ognuno dei 27 paesi membri, nel caso di Gaza Bruxelles non ha attivato l’identica procedura.

«Ma l’Italia può farlo in autonomia – ci spiega la giurista Alessandra Annoni – È l’articolo 20 del Testo unico sull’immigrazione, usato durante le primavere arabe per libici e tunisini, o per i Balcani. Prevede misure di accoglienza per eventi eccezionali: la presidente del consiglio con un decreto può definire una protezione speciale, indicando durata del permesso, adesione al servizio sanitario, possibilità di conversione del permesso….Nel caso di Gaza ci sono tutti i presupposti, non ha senso aspettare che la Commissione territoriale valuti le domande di asilo individuali. Passerebbero mesi e mesi e ai richiedenti verrebbe nel frattempo tolto il passaporto».

«L’Italia è l’unico paese europeo ad aver evacuato dei malati – dice Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio che a Roma segue 24 persone – Serve il sostegno della società civile ma anche una soluzione strutturale: abbiamo una legislazione che prevede la protezione speciale».

Dietro alle procedure ci sono le singole storie. A Genova, ci racconta Leila del gruppo Bds che prova a tenere i contatti con i nove nuclei familiari nel capoluogo ligure, alcune famiglie sono finite nel Cas: «Una famiglia di due adulti e tre minori, di cui uno disabile, vive in una camera di 16 metri quadrati in condizioni igieniche scadenti. Il cibo è avariato e non gli è stata fornita assistenza legale per la richiesta dei documenti. Dopo aver saputo che stavamo seguendo i loro casi, il Cas ha vietato le visite e insiste sulla richiesta di asilo». Nella stessa città una madre con una figlia in sedia a rotelle è finita in un appartamento al quarto piano, senza ascensore. A Roma, per seguire gli ospedalizzati, era stata trovata una traduttrice egiziana. Faceva la spola tra gli ospedali della capitale, alla fine ha mollato: impossibile lavorare da sola.

Yousef Salman, presidente della Mezzaluna rossa e della Comunità palestinese di Roma e del Lazio, prova a raccogliere fondi. Ad aiutarlo ci sono i Sanitari per Gaza, realtà nata dopo il 7 ottobre, decine di lavoratori sparsi per tutta Italia: «Organizziamo iniziative per raccogliere denaro. Lo Stato non gli riconosce nulla. Ma hanno bisogno di tutto: cibo, vestiti, pannolini per i bambini».

Sorgente: Soccorsi e abbandonati: i palestinesi nel limbo italiano | il manifesto

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