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Una bambina palestinese viene estratta dalle macerie dei bombardamenti di Gaza. È coperta di sangue, sa che la mamma e la sorella sono morte.
Una bimba paffuta vestita da sirena ondeggia seduta a ritmo di musica e batte le mani.
Tre cose da sapere sulla guerra in lsraele.
Tre cose da sapere su Taylor Swift.
Una ventenne ostaggio di Hamas fa un appello.
Una ventenne insegna il perfetto trucco occhi per una festa.
Un ragazzo ferma dei passanti nel centro di Milano: boxer o slip?
Un ragazzo chiede ad un coetaneo in una strada di New York: stai con Israele o con la Palestina?
Non è un romanzo distopico, ma la realtà vista dallo schermo di un telefono.

Benvenuti nel racconto della guerra tra Israele e Palestina — ma anche di quella tra Russia e Ucraina, del ritorno dei Talebani in Afghanistan, della pandemia e di molto altro — ai tempi dei social. Dove fatti, attualità e intrattenimento si mischiano nel tempo di uno scroll.
Difficile imparare qui qualcosa sui temi complessi del nostro mondo e della società, eppure ci sono miliardi di persone che guardano il conflitto israelo-palestinese da una nuova finestra globale. La più frequentata si chiama TikTok, piattaforma cinese di video brevi ed accattivanti, nata con la missione, evidentemente superata, «di diffondere gioia e creatività», 1,7 miliardi di iscritti nel mondo. Nelle ultime settimane balletti, lyp sinc, sessioni di trucco e consigli di moda hanno lasciato spazio al video degli attacchi di Hamas o dei bombardamenti su Gaza.
L’algoritmo premia contenuti personali, emozionanti, di grande impatto visivo, che possono poi essere replicati all’infinito con la funzione “ri-posta”.
Si può pure scorporare l’audio di un video e montarlo su immagini diverse da quelle originali. Potenziale benzina sul fuoco della narrazione di uno dei conflitti contemporanei più complessi, capace di generare odio verso entrambe le parti coinvolte.
La strage del rave nel Negev ha fatto breccia nell’immaginario di ragazzi abituati a partecipare a feste simili ed a scorrere sui loro telefoni le foto di festival rave. I video di coetanei che ballavano spensierati e, all’improvviso, sono stati uccisi o rapiti dai terroristi, hanno suscitato una ondata di empatia, a prescindere dalla situazione del luogo in cui erano avvenuti. L’effetto immedesimazione, il riconoscimento di codici comuni, in una prima fase, ha potuto più del contesto.
In pochi giorni però sono stati sostituiti da quelli, altrettanto tragici ed emozionali, dei bombardamenti su Gaza. Anche qui molti dei protagonisti sono adolescenti e ventenni, disperati perché la loro casa è diventata macerie, costretti a bere acqua di mare, mentre piangono.
Lo sgomento di chi guarda si travasa.
Quello che c’è stato prima è già superato.
Non è solo una questione di fake news e manipolazioni, che pure imperversano, ma di parzialità. Ricostruisco un fatto e mi creo un’opinione, attraverso singoli contenuti che colpiscono la mia sensibilità. Su TikTok l’hashtag #palestine ha raggiunto i 36 miliardi di visualizzazioni, #israel ne conta 32 miliardi, #freepalestine 16 miliardi.
C’è ormai un’intera generazione, la Z, quella dei nati tra il 1996 e il 2010, che si informa quasi solo sui social e manifesta una grande disaffezione verso i media tradizionali. Dobbiamo prenderne atto, TikTok sta diventando la piattaforma d’elezione per le persone tra i 18 e 24 anni, che qui trovano un racconto in linea con i propri riferimenti.
Anche nel conflitto israelo-palestinese preferiscono informarsi attraverso i video di coetanei che vivono in quelle zone e lo raccontano in prima persona. Inoltre, la stessa generazione usa Instagram e TikTok come motori di ricerca. Google è superato, l’ecosistema informativo rimane sempre lo stesso.
La semplificazione, però, non riguarda solo i giovanissimi. È diventata una delle lenti più potenti con cui viene letto il nostro tempo. Attraversa la televisione, soprattutto nei talk show ed i social, per contaminare la realtà.
L’affresco, il quadro globale, conta sempre meno.
Ognuno cerca voci e info utili più per rafforzare le proprie tesi che per informarsi.
La potenza delle immagini, statiche o in movimento, è innegabile. Danno allo spettatore l’impressione di assistere in diretta ad un evento e di poterlo giudicare in autonomia. Una singola foto può essere molto potente. Pensiamo agli scatti della guerra in Vietnam, impressi nell’immaginario collettivo.
L’11 settembre 2001 gli schermi da cui il mondo osserva un attacco agli Stati Uniti senza precedenti sono quelli televisivi. Nelle lunghe ore di diretta si replicano, in un flusso inarrestabile, i fotogrammi degli aerei che bucano il World Trade Center, le fiamme, le persone che si buttano dai grattacieli, i pompieri eroici.
Tutto contribuisce ad aumentare il senso di sgomento, cordoglio e condanna unanime. Ma in breve tempo monta pure il sentimento anti-americano, rinforzato dalle critiche alle guerre recenti e dalle accuse di imperialismo.
I social ancora non esistono, arriveranno qualche anno dopo, ma le voci fuori dal coro, le teorie complottiste e le rivisitazioni della realtà trovano spazio nei blog e nei forum. La frammentazione e le tifoserie dell’info contemporanea iniziano lì, nel mezzo di un attacco che cambia il volto dell’Occidente e tra due operazioni militari (in Afghanistan e in Iraq) rivelatesi poi disastrose.
È nei talk show che sono iniziate a saltare le regole del dibattito civile. Da decenni la discussione si è esacerbata, ci sono grida ed insulti, si è normalizzata la provocazione. Questo influisce direttamente sui telespettatori che ricevono, e ripropongono, un messaggio schierato, aggressivo e non sempre supportato da fatti reali.
A quasi vent’anni dall’11 settembre il mondo è travolto da un altro evento inatteso e catastrofico: una pandemia. Il virus del Covid 19 dilaga dalla Cina a tutti gli altri continenti. Lo schema della frammentazione si ripete, ma il quadro, questa volta, è più complesso. I social sono il mezzo di info principale per una grande fetta della popolazione mondiale ed i lockdown li fanno crescere in maniera esponenziale. La polarizzazione arriva in fretta. Prima riguarda le misure di contenimento e la responsabilità della Cina, poi i vaccini. Poco importa che si stia dibattendo su una crisi che riguarda la salute dei cittadini di tutto il mondo, la corsa al posizionamento, in rete e nei talk show, è aperta.
Ognuno cerca il suo baluardo, i suoi numeri, il suo scienziato, o presunto tale, di riferimento. Per la prima volta però Meta, Twitter e TikTok decidono di intervenire per provare ad arginare la diffusione di notizie false con badge e disclaimer che invitano a informarsi presso fonti accreditate.
La Storia è la prima vittima dei Social, sono luoghi virtuali in cui può essere facilmente manipolata. Per stravolgere il senso di un evento basta tagliare un fotogramma, eliminare un particolare o utilizzare una didascalia assertiva. Si può ottenere qualunque effetto, dimostrare qualsiasi cosa, anche di essere stati su Marte. L’interpretazione è affidata a chi guarda o legge. Si può dare l’impressione di sapere tutto anche quando non si sa niente.
Il conflitto in corso in Medio Oriente è un esempio perfetto di questa parcellizzazione. Nella genesi della guerra arabo israeliana ci sono fatti incontrovertibili, ma se vengono raccontati solo in parte si ha un resoconto non veritiero.
Non è possibile riassumere 76 anni di Storia in unico video di un minuto e questo vale per moltissimi altri casi. Sulle piattaforme vince chi è più sintetico, incisivo, anche a scapito di una torsione delle informazioni.
Le immagini in rete possono diventare un’arma perché non necessitano di mostrare la verità e non implicano l’utilizzo di parole che costruiscano un discorso serio e coerente. Il dialogo esige empatia, ascolto e fatti che supportino la propria tesi, ma in Rete la necessità è semplicemente «avere ragione», così mentre pensiamo di essere liberi, oggi siamo intrappolati in una caverna digitale.
Può ancora esistere un antidoto alla gabbia delle polarizzazioni, qualcosa che sia in grado di riportare al centro del dibattito i fatti e il contesto?
Può esserci un’informazione storica accurata anche sui social, ma sono gocce nell’oceano, il ruolo cruciale è quello della scuola che deve essere più severa, selettiva, con professori ben pagati e capace di costruire una conoscenza solida.

Sorgente: Per Capire Meglio…le Manipolazioni dei Social – Kintsugimental Eranos

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