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Un Paese con meno democrazia, con fortissime concentrazioni di poteri nelle mani di un capitale predatorio e con politiche pubbliche completamente privatizzate: questo lo scenario se verrà attuato il Ddl Calderoli. Se ne parla a Napoli il 3 febbraio con la presentazione del libro di Left

La cosiddetta “autonomia differenziata” non è una mera operazione di tecnica istituzionale, che travolge la Costituzione perché attiene alla forma/governo e alla forma/Stato.
Essa nasce da un progetto sistemico e strutturale (di cui è protesi): l’intreccio, cioè, tra liberismo e concorrenza tra territori.
La subalternità ideologica, per due decenni e più, del centrosinistra rispetto a questo assunto ha spianato la strada che è approdata, ora, al disegno di legge Calderoli.
Ricordo la “controriforma” del titolo quinto della Costituzione, varata dal governo Amato nel 2001. Erano gli anni in cui Massimo D’Alema considerava, pubblicamente, la Lega Nord una «costola della sinistra». Il punto di forza, a livello popolare, dell’autonomia differenziata si fonda sulla convinzione che ogni devoluzione di potere, dal centro alla periferia, sia di per sé positiva. Sinistre e gran parte del sindacato non hanno fatto da argine, con un punto di vista alternativo. Dalla pessima controriforma del 2001, infatti, all’attuale disegno di legge Calderoli scorrono l’aumento delle diseguaglianze, le privatizzazioni di tutti i servizi. Lo Stato sociale diventa di giorno in giorno più evanescente. Ai diritti uniformi per tutte e tutti si sostituisce lo ius domicilii; i diritti, cioè, sono maggiori o minori, più o meno esigibili, a seconda della regione in cui hai avuto la fortuna o la sfortuna di nascere o di risiedere. Sono più di trenta anni, da quando la Lega Nord (di Miglio e di Bossi) cominciò ad agitare il tema delle secessioni che, al di là del folclore (le fonti del Po, Pontida, ecc.) dietro si muovono forze economico/sociali, segmenti della borghesia che hanno saldi interessi nel perseguire una differenziazione nella gestione della Repubblica.

Condivido molto le osservazioni di Franco Russo. Il sistema del capitale, in particolare l’Ue, va analizzato non più secondo dimensioni nazionali bensì per “unità regionali”.
Nella Ue l’industria tedesca è al centro di un sistema che estende le sue catene produttive a Nord, verso l’Olanda e la Polonia, a Est verso la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Romania, a Sud proprio verso Lombardia, Veneto, Emilia. Le tre regioni italiane sono tra le prime dieci in Europa per livello di valore aggiunto industriale. La Lombardia è, di fatto, la prima regione industriale dell’Ue. L’autonomia differenziata è voluta con forza da queste regioni che non sopportano il fardello del resto d’Italia che ritengono sia insopportabile nella gara, aspra, per la competitività globale. Il “grande Nord”, come lo chiama il professor Giannola, è la sede di imprese che fanno parte delle catene del valore sovranazionali. Il tema è evidente: gli imprenditori del triangolo industriale hanno bisogno di procedere ad ulteriori forme di integrazione sovranazionale e per questo spingono, per liberarsi di “lacci e lacciuoli”. La parte, ovviamente, meno integrata e più marginale è il Sud. Il quale assurge, quindi, a metafora; che chiama al rovesciamento di campo. La “questione euromediterranea” si pone con determinazione all’interno di una Europa che ha smarrito ogni identità.

L’Europa appare del tutto succube di un feroce bipolarismo bellicista, sia sul terreno geopolitico che geoeconomico. L’affermarsi, contro l’autonomia differenziata, dell’idea della “regione euromediterranea” può essere, controcorrente, una leva per indicare una visione policentrica. Il Mediterraneo come laboratorio di convivenze può diventare una base materiale per ripensare l’Europa. Contro le attuali forme dominanti di “nuove colonizzazioni”, l’Europa del Sud può assumere la funzione di cerniera, il centro di importanti cooperazioni interregionali. La crescita di mercati regionali in alcune delle aree più popolate e tormentate è la risposta all’Europa escludente del regionalismo razzista, alle nuove aggressioni imperialiste, alle destabilizzazioni politiche. Non possiamo accettare la funzione, che i capitali vogliono affidare al Sud, di un mero hub energetico, di una piattaforma di transito verso le macro-regioni mitteleuropee di risorse energetiche africane e mediorientali (sempre più carbone, gas, petrolio). In questo contesto i tanto sbandierati Lep (Livelli essenziali di prestazioni) sono una truffa, fumo negli occhi per un effimero consenso. Tanto più in assenza di risorse per finanziare il fondo perequativo.

I Lep, che devono essere “uniformi”, sono la negazione dei principi di solidarietà (art. 2 Cost.) e di eguaglianza sostanziale (art. 3). Contro questa cortina di fumo dovremo lanciare una mobilitazione unitaria che unisca Nord e Sud. Potremo, infatti accettare la parificazione al ribasso di tutti i diritti? Un’eguaglianza presunta tra “diversi”? Marx parlava, non a caso, di “diritto diseguale”.
Temo un Paese con meno democrazia e con fortissime concentrazioni di poteri nelle mani di un capitale predatorio: un disastroso consesso di “cacicchi”, privo di qualsiasi programmazione democratica, con politiche pubbliche completamente privatizzate, che lasciano allo Stato frammenti di competenze (salva, ovviamente, la gestione dei poteri militari e di polizia, che sarà accentrata nelle mani del governo nazionale).

(Estratto dell’articolo di Giovanni Russo Spena dal libro di Left Repubblica una indivisibile euromediterranea, qui)

L’appuntamento, 3 febbraio 2024, Napoli, Palazzo Serra di Cassano

Nella foto: L’Italia all’asta di Luciano Fabro, frame del video MAXXI, 28 gennaio 2021

Sorgente: Con l’autonomia differenziata sarà la Repubblica dei cacicchi | Left

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