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Nel periodo tempestoso che stiamo vivendo e la cui origine si può far risalire alla fine della “guerra fredda” nel 1989, la guerra in tutte le sue molteplici manifestazioni e gradazioni (militare, commerciale, finanziaria, comunicativa, culturale, etnica, regionale, locale ecc.), è tornata prepotentemente ad occupare la scena mondiale ed è divenuta oggetto di indagini condotte nell’ambito di varie discipline, a vari livelli e con differenti approcci (geopolitico, economico, tecnologico, sociologico, psicologico ecc.).

Una domanda tuttavia sorge spontanea: che cosa ha detto la filosofia, e in particolare la filosofia italiana di questi ultimi decenni, sulla guerra?

Si può cominciare a rispondere a tale domanda prendendo in considerazione due articoli di Umberto Eco pubblicati, non a caso, a ridosso della rottura epocale che si verificò nel 1989: uno intitolato, per l’appunto, “Pensare la guerra” e pubblicato in occasione della prima guerra del Golfo (1991), e un altro intitolato “Quando la guerra è un’arma spuntata” e risalente al periodo della guerra del Kosovo (1999).

Nel primo articolo Eco sottolineava il fatto che non esistono più due fronti opposti nettamente separati, poiché «l’esistenza di una società dell’informazione istantanea e dei trasporti rapidi, della migrazione intercontinentale continua, unita alla nuova tecnologia bellica, ha reso la guerra impossibile e irragionevole e, dunque, «la guerra è in contraddizione con le stesse ragioni per cui è fatta».

L’illustre semiologo traeva da tale premessa la conseguenza per cui la guerra oggi non mette più di fronte due termini opposti, ma mette in concorrenza infiniti poteri.

Secondo Eco, che ripropone di fatto un punto di vista qualificabile, con tutti gli opportuni aggiornamenti, come neo-illuministico, è impossibile pensare il conflitto odierno secondo la logica binaria dell’idealismo tedesco: esso risulta infatti simile ad una partita a scacchi in cui entrambi i giocatori mangiano e muovono pezzi dello stesso colore.

Questa analisi viene approfondita nel secondo articolo, ove si distinguono le caratteristiche opposte della ‘paleoguerra’ e della ‘neoguerra’. Le condizioni della prima erano tre: «che al nemico dovessero essere tenute segrete le nostre forze e le nostre intenzioni, in modo da poterlo prendere di sorpresa; che ci fosse una forte solidarietà nel fronte interno; che infine le forze a disposizione fossero utilizzate per distruggere il nemico».

Ora, nella ‘neoguerra’ queste condizioni sono venute meno, giacché questo nuovo tipo di guerra presuppone flussi d’informazione inarrestabili, dà continuamente la parola al nemico e si muove all’insegna del vittimismo.

La conclusione di Eco è allora che nella ‘neoguerra’ muore lo stesso «un sacco di gente», ma non si vince, anzi si perde sempre, perché le dinamiche e le articolazioni del conflitto sono troppo numerose e incontrollabili.

Inoltre, per la natura che le è propria, la ‘neoguerra’ ha perduto completamente sia il suo fascino epico sia il suo significato strategico, proprio perché vincere attraverso di essa è diventato impossibile. Il bellicismo, ancor prima di essere immorale, è demenziale.

Dal canto suo, Massimo Cacciari sviluppa una riflessione sulla guerra nel volume Geo-filosofia dell’Europa (1994).

Il concetto attorno a cui ruotano la disamina e la elaborazione svolte dall’autore è quello di ‘armonia’. Egli sostiene che i diversi modi elaborati dalla tradizione filosofica per ‘pensare gli opposti’ (giacché questo è il vero nodo filosofico del problema) sono inadeguati al fine di spiegare la molteplicità e la complessità dei conflitti che segnano la vita sociale e politica contemporanea.

Tali modi sono i seguenti: la concezione pitagorica e neoplatonica dell’armonia, la concezione aristotelica che pensa gli opposti come contrari caratterizzati dalla possibilità di un termine intermedio e la concezione hegeliana che li pensa come contraddittori caratterizzati dall’impossibilità di un termine intermedio, ovvero dall’impossibilità di una ‘via di mezzo’.

Cacciari contrappone a questi modi di pensare gli opposti un’idea di pace come unità armonica, la cui prima intuizione va ricercata nel filosofo greco Eraclito (VI-V secolo a.C), il quale, polemizzando contro la concezione pitagorica dell’armonia intesa come conciliazione degli opposti, le contrappose la concezione per cui esiste un’armonia più potente, la quale contiene in se stessa «la necessità della contesa».

Come è noto, Eraclito condensò la sua concezione nel famoso aforisma, secondo cui “pólemos patér pánton”, ossia “la contesa è la madre di tutte le cose”.

Insomma, per Cacciari la dimensione agonistica non deve affatto essere considerata come antitetica alla ‘harmonía’, e l’‘agón’, cioè la contesa, manifesta l’armonia come sua propria verità. Così, salendo fino al più alto gradino nella scala delle grandezze, occorre riconoscere anche alla guerra, al ‘pólemos’, un ruolo essenziale nella creazione dell’armonia.

Tuttavia, guerra non vuol dire rissa: il ‘pólemos’ è altro rispetto alla ‘stásis’, alla guerra civile che conduce al trionfo dei peggiori (che è quanto dire alla cachistocrazia che, secondo taluni interpreti della nostra vicenda nazionale, dopo essersi imposta con il colpo di Stato di Tangentopoli, da almeno un trentennio, nelle sue varianti omologhe di ‘destra’ e di ‘sinistra’, signoreggia il nostro infelice paese).

D’altronde, come nota Cacciari e come dimostra il conflitto israelo-palestinese, l’appello alla ragione esemplificato nella dottrina platonica dei ‘filosofi-re’ non è sufficiente a garantire la pace, poiché anche la violenza dei ‘cattivi’ si nutre di argomenti razionali, come accade nel famoso discorso ai Melii che Tucidide mette in bocca agli Ateniesi.

Il ragionamento di questi ultimi, esattamente come accade oggi con la giustificazione della guerra addotta dal governo israeliano (e come accade, malgrado alcuni ‘distinguo’ irrilevanti, contraddittori e ipocriti, con le analoghe giustificazioni degli USA e della UE), afferma che non bisogna opporsi a chi è più forte.

In altri termini, esso non rende forte la giustizia, ma giustifica la forza; è insomma l’espressione di una ‘hybris’, di una tracotanza che è la vera nemica della pace.

E allora che cosa deve fare il filosofo, il massimo educatore, devoto di Athena e consapevole che questa è la dea non solo della sapienza, ma anche, indissolubilmente, del conflitto? La prima cosa da fare è distinguere tra ‘bía’ e ‘krátos’, tra violenza illegittima e forza intelligente.

In un’epoca profondamente segnata da gelidi mostri e da sporche guerre, il filosofo deve far sentire la sua voce, e in questa deve risuonare l’eco della grecità, vera madre della cultura europea. Ma questa voce non somiglia né a quella di un pacifismo decadente e senile che parifica “tolleranza” e complicità con il male, né a quella del pacifismo accidioso della “via di mezzo”, che depotenzia gli opposti ponendo sullo stesso piano torti e ragioni.

Il problema che solleva Cacciari è invece il problema principale di Platone e può essere formulato in questi termini: come è possibile una città che non sia sempre guerra civile in potenza? La risposta è che tale città deve essere pensata, altrimenti neanche il molteplice sarebbe pensabile e il conflitto, represso o dirompente, renderebbe la convivenza fra i cittadini impossibile.

Questa breve rassegna filosofica intorno alla ricerca del significato attuale della guerra, oscillante tra la ‘paleoguerra’ e la ‘neoguerra’ di Eco e tra l’armonia e il conflitto di Cacciari, costituisce un esempio certamente pregevole dello sforzo compiuto da due importanti pensatori del nostro paese non solo nel definire, da un punto di vista teoretico, un evento, per così dire ‘strutturale’, della storia umana, ma anche e soprattutto nel delineare una prospettiva logica ed etica in cui, da un lato, la guerra non sia più la forma necessaria di tale storia e la pace, dall’altro, non sia più la prosecuzione della guerra con altri mezzi.

Sorgente: Che cosa ha detto la filosofia italiana sulla guerra: Eco e Cacciari – Contropiano

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