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Prima hanno silenziato le fonti delle notizie con la scusa della presunzione d’innocenza. Poi hanno dato una stretta alla pubblicazione delle intercettazioni, pure quelle che potrebbero provare l’innocenza dell’imputato. Quindi è arrivato il bavaglio: vietato pubblicare le ordinanze di custodia cautelare, cioè quello che è il più importante documento di ogni inchiesta giudiziaria. Se arresteranno qualcuno, è l’obiettivo del legislatore, lo si dovrà sapere solo dai comunicati stampa diffusi dalle forze dell’ordine o dalle ormai sempre più rare conferenze stampa dei procuratori. Per capire se le accuse contestate sono sostenute da elementi solidi o meno, invece, bisognerà attendere la fine delle indagini dell’udienza preliminare: dunque dovranno passare tra i sei e i 18 mesi dal giorno dell’arresto.

Il divieto di pubblicazione delle ordinanze è solo l’ultimo atto dall’assalto lanciato dalla politica all’informazione giudiziaria. Una lunga guerra che va avanti da decenni, composta da tante piccole battaglie. Attacchi che probabilmente non sono ancora finiti: in Parlamento, infatti, giacciono vari provvedimenti per rovinare i giornalisti e gli editori che pubblicano intercettazioni, multandoli con cifre spropositate o addirittura facendoli finire in carcere. Non sono proposte di legge, sono pizzini. L’obiettivo è sempre lo stesso: controllare, ridimensionare e colpire la cronaca giudiziaria. Ma andiamo con ordine.

La guerra dei trent’anni – Archiviati – in un modo o nell’altro – i tentativi di bavaglio dei governi di Silvio Berlusconi, falliti anche grazie a una mobilitazione senza precedenti del mondo dell’informazione e della società civile, respinti quelli dell’esecutivo di Matteo Renzi, l’attacco all’informazione ha ripreso vigore con l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi e di Marta Cartabia in via Arenula. Grazie al clima di larghissime intese dell’ultimo biennio, infatti, nel marzo del 2021 Enrico Costa, deputato di Azione, è riuscito a fare approvare un suo emendamento alla legge di Delegazione europea. L’obiettivo era recepire la direttiva Ue 343 del 2016, sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza“. In realtà, con la scusa di mettere un freno ai cosiddetti processi mediatici, è stata imposta una prima stretta a tutta l’informazione giudiziaria.

Cartabia, il bavaglio alle fonti – In pratica, in attesa di mettere un bavaglio all’informazione, si è vietato a pm e investigatori di parlare coi giornalisti: lo può fare solo il procuratore capo e solo con comunicati ufficiali. Che devono seguire astrusi paletti lessicali. “È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Cosa vuol dire? La norma è vaga, le conseguenze per chi la viola sono chiarissime: “Sanzioni penali e disciplinari”, “obbligo di risarcimento del danno” e “rettifica della dichiarazione resa”. Viene poi previsto che in certi casi di “particolare rilevanza pubblica“, è concessa la possibilità di organizzare una conferenza stampa. Ma chi decide se un’indagine ha o meno rilevanza pubblica? Sempre il procuratore capo, che però non è un giornalista: elementi contenuti in un’indagine che per un magistrato non hanno alcuna importanza, magari rappresentano una notizia di grande interesse per la collettività. In più, in questo modo, il procuratore potrà decidere se lasciare nei cassetti, lontano dai riflettori, alcune determinate indagini. Nessuno potrà contestare agli inquirenti di aver fatto scelte sbagliate o magari aver violato la legge se quelle scelte non sono note. Insomma quello varato dalla ministra Cartabia è un vero e proprio bavaglio, che zittisce le fonti dell’informazione giudiziaria.

Tutti muti col governo dei migliori – L’effetto di quel decreto, come ha raccontato ilfattoquotidiano.it, è che spesso i comunicati delle procure sono vuoti: non ci sono i nomi degli indagati, ma a volte neanche quelli delle vittime. In certi casi il risultato è surreale, come è avvenuto nel caso del comunicato stampa con cui la procura di Bergamo spiegava di avere chiuso le indagini sulla gestione della pandemianon c’erano le ipotesi di reato e e neanche i nomi delle persone sottoposte a indagini, nonostante si trattasse dei vertici del governo dell’epoca. Va detto che se il bavaglio Cartabia è stato approvato senza quasi nessuna voce di dissenso la colpa è anche di chi si occupa d’informazione. Quando il Parlamento discuteva quel decreto, infatti, l’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti e il segretario della Federazione nazionale della stampa non si presentarono in audizione, sostenendo di non aver avuto tempo per prepararsi. Ma d’altra parte in quel periodo era considerato quasi sconveniente contestare qualsiasi atto dell’esecutivo: era o non era il governo dei migliori?

La stretta di Nordio alle intercettazioni – Una tendenza che sembra essersi diffusa anche oggi che a Palazzo Chigi c’è Giorgia Meloni. Nel giugno scorso, per esempio, il guardasigilli Carlo Nordio ha varato la prima parte della sua riforma della giustizia. Il ministro ha deciso di dedicarla a Berlusconi, deceduto pochi giorni prima: già solo questo avrebbe dovuto allertare gli osservatori. E invece è passato quasi sotto silenzio il fatto che, tra le altre cose, all’interno di quel provvedimento è contenuto il divieto di pubblicazione, anche parziale, di qualsiasi dialogo non “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. In pratica non possono essere pubblicate neanche le intercettazioni citate nelle richieste di misure cautelari indirizzate dai pm al gip. Inoltre i nastri “che riguardano soggetti diversi dalle parti” non potranno più essere acquisiti dal giudice nell’udienza stralcio, “sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza”. Chi sono i soggetti diversi dalle parti? Le persone non indagate? Ma se in un’intercettazione con “soggetto diverso dalle parti” è contenuta una notizia d’interesse pubblico perché un giornalista non dovrebbe riportarla, visto che non è più coperta da segreto? Senza considerare i casi in cui da una dialogo registrato con terze persone emergono elementi utili a dimostrare l’innocenza dell’indagato: perché un cronista non dovrebbe scriverne?

Ritorno al passato – L’impressione, in realtà, è che a dare fastidio al legislatore sia tout court la pubblicazione delle notizie contenute negli atti d’indagine. Un fastidio condiviso dalle forze di maggioranza con quelle che si autodefinivano espressione di un fantomatico Terzo polo, cioè i piccoli partiti personali di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Martedì sera il leader di Azione è arrivato a definire “straordinario” il lavoro del suo deputato Costa, autore di un altro emendamento-trappola alla legge di Delegazione europea. Doppio figlio d’arte (il padre Raffaele è stato ministro e parlamentare), Costa è stato viceministro della Giustizia con Renzi, ministro degli Affari regionali con Paolo Gentiloni. Poi è passato con Calenda e da quel momento è diventato il nemico giurato della cronaca giudiziaria: seduto in Parlamento studia i provvedimenti più adatti per silenziare sempre di più le notizie su indagini e inchieste. L’ultimo successo è l’emendamento approvato martedì che impegna l’esecutivo a modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale, prevedenendo “il divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia cautelare finchè non siano concluse le indagini preliminari“, o l’udienza preliminare, dove è prevista. In questo modo si riportano indietro le lancette al 2016: l’anno dopo la riforma dell’allora guardasigilli Andrea Orlando avrebbe escluso le ordinanze di misura cautelare dal divieto di pubblicazione, che è previsto anche per gli atti non più coperti dal segreto dal secondo comma dell’articolo 114.

Vietato pubblicare le ordinanze – Va detto che prima della riforma Orlando il contenuto delle ordinanze veniva sempre pubblicato sui giornali, che citavano spesso e abbondantemente i virgolettati contenuti nelle carte del gip. Questo perché una cosa è la pubblicazione dell’atto in sè, un’altra quella del suo contenuto: quest’ultima è vietata soltanto per gli atti segreti. Bisognerà adesso vedere come il governo tradurrà in legge l’emendamento di Costa: si continueranno a pubblicare ampie parti delle ordinanze come prima del 2017? In realtà l’input che arriva dal Parlamento è opposto: il problema non è tanto dare le notizie degli arresti. A infastidire il legislatore è il fatto che sui giornali finiscono spesso stralci d’intercettazioni, riportate dal gip nelle ordinanze per motivare i gravi indizi di colpevolezza degli indagati. In questo senso la norma approvata dal Parlamento che mette il silenziatore alle ordinanze è un po’ un secondo tempo del bavaglio Cartabia, che invece ammutoliva pm e investigatori. A certificarlo è lo stesso Costa, padre ispiratore di entrambe le leggi, che nell’aprile scorso su X (l’ex Twitter) si lamentava, tanto per cambiare, dei magistrati: “Non possono – salvo eccezioni – fare conferenze stampa, allora usano le ordinanze di custodia cautelare (pubblicabili integralmente): le riempiono di intercettazioni e dettagli nella forma migliore per essere pubblicati e via agli articoloni”. Pochi mesi dopo ecco che Costa è riuscito a vietare la pubblicazione integrale delle ordinanze.

Prossimo obiettivo: rovinare giornalisti ed editori – Adesso bisognerà capire come sarà regolata la diffusione di stralci delle carte del gip? Verrà considerata lecita dai giudici come avveniva prima della riforma Orlando? O ai giornalisti verrà contestata la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale? Il reato disciplinato dall’articolo 684 del codice prevede la pena dell’arresto fino a 30 giorni o l’ammenda da 51 a 258 euro. Come è noto agli addetti ai lavori, la violazione di questa norma viene sanata quasi sempre con il pagamento dell’ammenda. Ecco perché Costa pensa già al futuro. “Bisognerà intervenire anche sulla sanzione. Ci si può arrivare con un emendamento. Non è possibile che con poche centinaia di euro si estingua il reato”, dice all’Huffington post il deputato di Azione. E dire che oltre a essere un avvocato Costa è anche iscritto all’ordine dei giornalisti, come pubblicista, fin dal 2009, dunque tre anni dopo la sua entrata in Parlamento con il Popolo della Libertà.

Le altre leggi pronte in Parlamento – Ed è proprio dai berlusconiani che all’ex ministro di Renzi e Gentiloni potrebbe arrivare una sponda utile per la sua prossima missione: punire più severamente chi pubblica gli atti di un procedimento penale. Nel luglio scorso, infatti, i deputati di Forza Italia Tommaso Calderone e Annarita Patriarca hanno depositato una proposta di legge per alzare fino a 150mila euro l’ammenda per i giornalisti che pubblicano atti giudiziari, anche se non sono più coperti da segreto. Il reato disciplinato dall’articolo 684 del codice penale è una vera passione per i due berlusconiani. Calderone e Patriarca, infatti, sono gli stessi deputati che nel dicembre dell’anno scorso hanno proposto di creare una nuova norma all’articolo 379-ter: prevede di punire con una pena tra i due a i cinque anni di carcere chi pubblica atti d’indagine, anche quelli che non sono più coperti da segreto. Il carcere per i giornalisti è stato già dichiarato illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dunque quella proposta è rimasta negli archivi di Montecitorio. Ma visto il delicato momento storico sarà il caso di non abbassare la guardia: dal bavaglio alla stampa, alle catene per i giornalisti, è un attimo.

di Giuseppe Pipitone

Sorgente: Il bavaglio alle fonti e quello alla stampa, da Cartabia a Nordio e Costa: la lunga guerra della politica all’informazione giudiziaria – Il Fatto Quotidiano

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