per l Palestina
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Intervista a Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Autore di “La direzione è storta – Reportage sul Covid 19 e i virus del potere” (2021, Homo scrivens editore) e “Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno – Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi” (2022, D.E.A. Edizioni).

Un mese fa, il 7 ottobre: la rottura dell’assedio di Gaza da parte della Resistenza Palestinese. Per i governi occidentali, per i media mainstream e per tanti pacifisti europei, sostenitori della causa palestinese, è stato “un attacco terroristico”. Nel tuo breve saggio «poetico ed eretico», «La Rivoluzione Palestinese del 7 ottobre» (pubblicato da Osservatorio Repressione 20/10/2023 e poi, in Grecia da Προλεταριακή Πρωτοβουλία 5/11/2023), hai usato la parola “rivoluzione” sin dal titolo. Una parola che non è stata condivisa da tutti. Anzi…

Credo di aver dato voce a una consapevolezza diffusa. Per vedere l’evidenza che di rivoluzione si tratta, ai più attenti sono bastate le molte immagini liriche, le articolazioni del mio pensiero o soltanto due periodi che ho scritto: «Una sovversione che va oltre la logica utilitarista e tatticista della guerra e non può essere volgarmente chiamata “guerra”. Come per i rari urti che fanno irrompere una nuova concezione dell’umano, va adoperata la parola “rivoluzione”».

Il 7 ottobre palestinese incede al di là della dimensione di conflitto di liberazione coloniale, segna senza equivoci l’inizio di un processo rivoluzionario irreversibile nel mondo arabo e nell’occidente liberista. A prescindere dall’esito dello sterminio di civili gazawi, in corso in queste ore, denominato “operazione militare”. Perché stavolta Israele, l’Unione Europea e gli Stati Uniti pagheranno a breve, medio e lungo termine un prezzo inimmaginabile per il sangue che stanno versando.

Per la logica colonialista del senescente sistema culturale italiano non è facile da comprendere, ma stiamo vivendo la prima autentica rivoluzione di questo secolo: la thawra ( ثورة ) palestinese.

Perché il pensiero occidentale ufficiale non comprende la portata rivoluzionaria del 7 ottobre?

Perché i “compagni” che hanno accesso ai media dominanti sono «anime belle razziste», commenterebbe Fanon. Nell’assassina, suprematista pacificazione “europea” viene svilito, e si è smarrito, il significato profondo del profilo rivoluzionario di un atto storico.

Non per nulla, molti hanno scambiato esperienze di sconvolgimento politico, seppur rilevanti, per delle rivoluzioni, solo perché vi scorgevano il baluginio di una vaga e debole progettualità socialdemocratica alle radici. Quindi attigue alle buone e civili maniere che nel nord bianco si usano per ingannare i popoli e fingere di cambiare le cose.

Come i tumulti libanesi e cileni cominciati nel 2019. Spinte popolari tutte difensive rispetto alla violenza liberista che si sono esaurite nel paludoso cammino parlamentare: da una parte con le dimissioni di un primo ministro agevolmente rimpiazzabile, dall’altra con l’elezione di un presidente semplicemente neutralizzabile.

A tal proposito, è interessante notare come la giovanissima, meravigliosamente incivile insurrezione francese – attenzione, insurrezione non rivoluzione – dell’inizio di quest’estate abbia invece suscitato nelle élite della sinistra europeista più sgomento che simpatia.

Perché quei luminosi figli di arabi e africani attingevano a fiamme vere, primordiali e non all’ ‘effetto fuoco cinematografico’ di un programma elettorale.

Conversando prima di cominciare l’intervista, ci hai detto che ci sono tre caratteristiche principali della Rivoluzione Palestinese. La prima?

È la potenza innovatrice che rivela una concezione inedita della donna e dell’uomo come soggetti che liberano l’«estremismo umano», «lottano contro questa vita» incatenata, espropriata e scarnificata e la scagliano come arma contro il nemico pur di giungere alla vittoria, e far approdare i prossimi figli all’esistenza profonda, all’istintiva verità senza diseguaglianze.

La Rivoluzione Palestinese non mette nemmeno in conto che si possa mediare col genocida e illegittimo Israele.

Il voler riprendere ogni manciata di terra rubata da sotto i passi finalmente atterriti del colone, il voler strappare dalla gola dell’usurpatore ogni filo di vento respirato, il voler scassinare ogni casa depredata da un secolo, il voler ridare il giusto nome a ogni luogo stuprato, senza alcuna concessione allo stato coloniale, è un elemento nuovo e dirompente nella recente storia.

Non a caso, gli antichi greci coniarono l’espressione neoterìzein (νεωτερίζειν): introdurre con la forza novità in qualunque sfera dell’umanità.

La seconda?

È la sovversione volta all’attacco senza tregua del carnefice, sino a denudarlo nella sua vile debolezza, a mutarne per sempre lo stile di vita superiore per diritto divino ed etnico. Fino a costringerlo alla fuga nel panico, sia essa pratica o psichica.

La dinamica offensiva, dove l’aspetto politico e militare si saldano armonicamente, è ciò che fa pulsare un’autentica rivoluzione.

I rivoluzionari palestinesi non solo colpiscono nel profondo la società dell’occupante, ma riescono persino nell’impresa di trasformare Gaza da lager, dove si è condannati a morte certa da cinquantasei anni, a fortezza dell’insurrezione in cui si potrà rinascere. Da prigione infame a grembo della nazione che verrà alla luce. Una partoriente che accetta di morire pur di sapere che la figlia vivrà.

E, infine, la terza?

La Rivoluzione Palestinese abbatte i confini tracciati dagli occidentali, è epicentro di un terremoto che scuote e scuoterà le colonne portanti, già quasi disfatte, del totalitarismo liberista dell’Unione Europea.

Altro che «violenza post politica», come l’ha chiamata qualcuno, forse terrorizzato dalla possibile perdita dei privilegi acquisiti sulla carne degli ultimi.

La Rivoluzione Palestinese ha una voce così netta che, prendendo in prestito le parole di Calvino, è «continua sfida alla legge della gravitazione».

Approda su queste rive del Mediterraneo, viene ascoltata, interiorizzata in un soffio dalle nuove generazioni che subiscono condizioni schiavili, di apartheid, di cancellazione del futuro. E s’identificano subito nei miliziani gazawi o della Cisgiordania che le conoscono al massimo grado e le combattono fino al martirio.

Veniamo al grande movimento per la liberazione della Palestina che agita senza sosta le piazze italiane e degli stati dell’Unione Europea. Dalle tue parole, mi pare, che tu veda delle differenze rispetto alle mobilitazioni dei decenni precedenti.

È un movimento composito, interetnico, intergenerazionale che attrae per la prima volta anche chi sta fuori dalla partecipazione politica tradizionale. Michel Foucault lo definirebbe «un maremoto senza apparato».

Queste particolarità consentono di compiere continui e potenti rilanci che seguono, come ho scritto nel saggio, «lo straripare palestinese».

Ha la sua avanguardia nelle nuovissime generazioni e ha chiara – tanto nella parte radicale e innovativa quanto in quella dell’umanitarismo rétro – la consanguineità ideologica e concreta dello stato italiano con lo stato genocida sionista.

Ti riferisci alla lotta contro la cooperazione economica e militare tra Italia e Israele?

Non soltanto. Il vincolo economico e militare è importante, ma è solo uno dei vincoli.

Come quello sionista, lo stato italiano fa del razzismo coloniale una religione. Il nesso biologista, suprematista, fondato sul dispotismo capitalistico tra Italia, Unione Europea e Israele è innanzitutto culturale.

Proprio a settembre c’è stata la promulgazione degli editti razziali del governo neofascista che perfezionano la detenzione amministrativa per i migranti. Una legge di segregazione etnica del 1998 che porta, intinto nel sangue dei reclusi e degli assassinati, il nome del padre della patria, Giorgio Napolitano. Una norma che riprende l’invenzione repressiva sionista, ad aeternum e al più elevato livello di brutalità per i palestinesi.

Proprio in queste giornate poi si pianifica la deportazione e l’internamento dei rifugiati in altre nazioni.

Nell’apparato giudiziario-carcerario, il legame è altrettanto palese: l’infinito imprigionamento dei detenuti politici di ogni stagione d’insorgenza; la Legge israeliana dei Servizi Carcerari del 1971 presa a modello in Italia – che si serve, per citare Ahmad Sa’dat, dell’isolamento del detenuto «come pena, forma estrema di tortura, e metodica distruzione psichica» – con l’articolo 90 prima per i rivoluzionari comunisti, e il 41 bis poi per anarchici, combattenti anticapitalisti e mafiosi; e, nelle galere riservate ai “comuni”, le celle colme di profughi del Sud del Mondo che non s’è riusciti a togliere di mezzo con gli annegamenti di massa nel Mediterraneo, coi patiboli del mare.

Non c’è bisogno di prestare orecchio alla demenziale propaganda bellica e arabofoba in televisione e sui giornali, per avere sotto gli occhi la ferocia dei sionisti italiani.

Israele è qui, sembri dirci.

Qui ci sono i suoi vecchi progenitori che hanno – non mi stancherò mai di ripeterlo – generato un figlio così mostruoso, così perfetto nel realizzare una democrazia genocida da divenire punto di riferimento assoluto del sistema liberista occidentale.

È lampante che su questo territorio ci siano anche le propaggini dirette dell’entità sionista. Incidono, come noto, nelle università, nell’ambito culturale, massmediatico, nell’attività imprenditoriale di qualsiasi risma, nei luoghi di sfruttamento lavorativo.

L’attuale movimento per la liberazione della Palestina combatte nelle strade e nelle piazze dello stato italiano, privo delle ritrosie delle generazioni precedenti, il sionismo e il totalitarismo liberista in qualunque forma, senza distinzioni fra poteri “europei” e Israele.

E la “questione Hamas” come viene affrontata dal movimento?

A domanda scontata, risposta chiara ed elementare: la Resistenza Palestinese è unificata dal 2021 nei suoi quattro fronti. Hamas è una delle componenti, la prevalente. Personalmente ho già scritto e ribadisco che l’opera trentennale di Hamas sia stata e sia preziosa, centrale per Gaza, per la Palestina. Non è una setta terroristica, ma un’organizzazione politica, sociale e rivoluzionaria. Ha contribuito più volte, con una strategia limpida, a infrangere lo stallo che consentirebbe ai sionisti e agli occidentali di procedere nell’eliminazione totale del popolo palestinese.

In questo mese hai seguito dall’interno la parte sarda del movimento. Che impressione ne hai ricavato?

Non è una porzione di movimento, bensì un movimento nel movimento, un’onda potenzialmente anomala nella mareggiata.

Come tutte le colonie, la Sardegna è ricchissima di risorse, con una popolazione schiacciata da un’indigenza crescente. Ogni giornata, assiste alle esercitazioni dell’occupazione militare dello stato centrale, della NATO, dei caccia sionisti. Da secoli, al saccheggio di predatori italiani, nordeuropei, nordamericani, sionisti con l’aiuto dei collaborazionisti locali.

La lotta per la Palestina dei militanti sardi è accesa da una storica, viscerale vocazione indipendentista, un radicato anticolonialismo, da un moto mediterraneo, antioccidentale, da una fratellanza carnale e d’anima con le comunità palestinesi, arabe e africane.

Qui si sta costituendo un movimento incredibilmente avanzato nella composizione interetnica e nelle pratiche di confronto interno e scontro esterno.

Per il tuo saggio sul 7 ottobre hai ricevuto minacce telematiche, private e pubbliche, da parte di alcuni sionisti. Vuoi raccontarci cosa è accaduto?

Preferisco parlare dell’aggressione sionista nei confronti di Karem Rohana, avvenuta a Roma il 25 ottobre scorso. Occorre esprimergli affetto e vicinanza.

La mia vicenda invece fa sorridere, così come sono risibili i personaggi che hanno deciso di dedicarmi simili attenzioni.

Non è comico però l’intreccio che emerge dal sostrato delle intimidazioni di matrice sionista. Un groviglio che unisce appartenenti all’area del partito radicale, esponenti neofascisti che sono nel direttivo delle associazioni Italia-Israele, e farabutti, farisei di varia estrazione che sventolano bandiere con la stella di David.

Dall’altra parte, le comunità ebraiche e gli opinion maker ebrei però denunciano un crescente clima di antisemitismo.

Al posto delle signore e dei signori delle comunità ebraiche, mi porrei qualche domanda di buon senso rispetto al presunto sorgere di tale avversione che contraffanno, smerciandola per “antisemitismo” o “antiebraismo” che dir si voglia.

Quali domande?

Perché nello statuto dell’unione delle comunità ebraiche, articolo 1, paragrafo 3, comma k, è chiesto tra i doveri istituzionali di «promuovere i contatti spirituali e culturali con Israele»? Perché quest’ipocrisia? Dal momento che i «contatti» e gli stretti rapporti con lo stato d’occupazione coloniale israeliano sono di natura fondamentalmente politica?

Perché non ammettere che le 21 comunità ebraiche italiane sono effettiva diramazione e presenza israeliana sul suolo di un altro stato?

Come si coniuga il ricorso costante dei suoi rappresentanti all’antiebraismo nell’affrontare discorsi pubblici su Israele, con il sostegno che essi stessi danno a movimenti neofascisti, eredi di coloro che hanno perseguitato gli ebrei dal 1938 al 1945?

Perché la moltitudine di associazioni e fondazioni che sfoggiano la targa “Memoriale della Shoah” non svolge unicamente la funzione ufficiale di ricerca e divulgazione storica, ma è megafono della propaganda sionista?

Perché Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche italiane, quando col suo limitato linguaggio si lancia nel miserabile paragone tra la Resistenza Palestinese e l’Isis, non spiega che quest’ultimo è stato creato in laboratorio dagli israeliani, e sguinzagliato per annientare la Siria? E che Hamas ha mosso guerra senza quartiere all’Isis?

Le comunità ebraiche italiane sono Israele. E subiscono, se vogliamo dare retta alle loro lagnanze, la fortunatamente diffusa ostilità contro Israele. Non è una faccenda di discriminazione etnica o religiosa. Non è antisemitismo, antiebraismo o antigiudaismo. È antisionismo. Una questione politica ed esistenziale, originata dai crimini contro l’umanità che lo stato d’apartheid commette ogni giorno, ora, minuto sui palestinesi.

In conclusione, vuoi aggiungere qualcosa sul genocidio in atto Gaza?

Posso solamente dire che ho fiducia. Nonostante l’orrore e il dolore inarrestabile per i martiri, ho fiducia. E che, allo stesso tempo, nella mia testa risuonano i versi del poeta siriano-palestinese Khaled Soliman Al Nassiry: «Ora qui c’è chi grida/ ciò accade solo quando una meteora cade su un fratello/ che ha espresso un desiderio oltre il potere del destino».

La redazione, 9 novembre 2023

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