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La leader sbuffa quando si parla del commissario. I sindaci: per l’emergenza c’è meno di 1 miliardo, la metà delle risorse annunciate dal governo

ROMA. Una cosa sola hanno capito, sindaci e governatori, quando la larga riunione di Palazzo Chigi è finita: che per il post-alluvione Giorgia Meloni vuole procedere in splendida solitudine. Le decisioni verranno accentrate a Palazzo Chigi, tagliando fuori tutti, alleati e non, ministri e possibili commissari straordinari. La premier è stata accorta. I suoi toni, collaborativi e istituzionali. Ma il senso del discorso è chiaro. Annunciando l’istituzione a Roma di un Tavolo di consultazione permanente sotto la guida del ministro per la Protezione Civile, Nello Musumeci, che farà da «collettore» alle istanze degli enti locali, in pratica la ricostruzione resta in mano a lei. E infatti non solo mugugnano i sindaci delle città alluvionate, che da quelle parti sono quasi tutti del Pd, ma anche la Lega, presa in contropiede. A Matteo Salvini non resta che fare buon viso. Pensare che la sera prima, come rivelato dal sito Dagospia, il vicepremier leghista era a cena a Trastevere con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Ma mica lo avevano informato del colpo di scena.

La presenza di Meloni, inizialmente, era prevista solo per un rapido saluto. Avrebbe dovuto aprire il vertice con il governatore Stefano Bonaccini e con i sindaci romagnoli, riunione poi estesa ai territori alluvionati anche di Marche e Toscana, per poi lasciare Salvini e il sottosegretario Mantovano a condurre il confronto. E invece è rimasta, rendendo subito palese la sua volontà: fare a meno (per ora) di un commissario alla ricostruzione, evitare un infinito dibattito sul ruolo di Bonaccini, centralizzare a Palazzo Chigi il coordinamento sulle risorse e la pianificazione degli interventi, prendere tempo sull’erogazione delle risorse perché i soldi – questa è la verità che sembra emergere giorno dopo giorno – non sono abbastanza e non sono quelli inizialmente promessi. Meloni, infatti, è pronta a dare battaglia contro tutti, circondata dai suoi fedelissimi.

I sindaci capiscono subito che il nodo principale, su chi sarà il commissario alla ricostruzione, in quali tempi sarà scelto, e con quali risorse, non verrà minimamente affrontato. È palpabile il fastidio della premier ogni volta che qualcuno tenterà di introdurre il tema. Sbuffa, si mostra spazientita, nervosa. E c’è di più. C’è l’impressione che il governo sia tentato di non nominare alcun commissario. Per i leghisti suona come una novità. L’idea di aggirare il problema del commissario tornerà anche nelle parole del sottosegretario Mantovano, il quale, raggiunto dai giornalisti, la spiega così: «Siamo tutti responsabili in questa fase. Non c’è bisogno di un garante. Ci sono differenti istituzioni, centrali e territoriali».

I sindaci, specie quelli romagnoli, però non sono affatto convinti di una soluzione del genere. E hanno un sospetto: che Meloni voglia prendere tempo, allungare il più possibile l’attesa, perché l’amara realtà del bilancio fa emergere che le risorse sono pochissime. Secondo l’analisi degli amministratori, a disposizione dell’esecutivo c’è meno di 1 miliardo, e cioè meno della metà dei 2,2 miliardi promessi nel decreto per la ricostruzione.

Meloni e i sindaci si punzecchiano. La premier spiega come intende muoversi: «Non possiamo mettere risorse senza prima avere una chiara determinazione dei danni». Poi insinua, con una punta di sfiducia verso gli amministratori: «Ci siamo detti che l’obiettivo sono i risarcimenti al 100%, ma più si allarga la platea più è difficile raggiungerlo. Non possiamo far rientrare danni pregressi che nulla c’entrano con l’alluvione». È una precisazione che non piace ai sindaci. La premier offre anche l’ipotesi di uno scudo penale per gli amministratori ed è a quel punto che, tra gli altri, il primo cittadino di Cesena Enzo Lattuca replica: «Le inchieste delle Procure sono partite e noi ci assumiamo tutte le responsabilità della ricostruzione, anche senza coperture penali e anche se dovesse essere l’ultima cosa che facciamo come amministratori. Stiamo lavorando in maniera seria, incrociando i dati dei droni e degli interventi di emergenza».

Il punto però è quando e quanti soldi arriveranno. «Va bene anche se non tutto arriva subito, ma devono cominciare ad arrivare il più presto possibile, perché più si aspetta più le spese aumenteranno». Si parla di strade da ricostruire, argini da tirare su, manutenzione idraulica da fare. «Non possiamo andare avanti con la “somma urgenza”. E se ci affidiamo alle procedure ordinarie, ci vorranno anni», incalza il sindaco di Ravenna, Michele De Pascale. La stima definitiva su cui punta Meloni rischia di trascinare il problema per mesi, e intanto agli sfollati andrà comunque garantita una casa e servizi adeguati, a spese dello Stato. La dotazione prevista dal governo è già meno del previsto. Qualche giorno fa era stato il sito Pagella Politica a svelare che la realtà dei numeri era diversa da quella annunciata da Meloni a fine maggio.

Dalla relazione tecnica è emerso che, sommando le voci, l’importo si ferma a 1,6 miliardi. Di questi, 423 milioni sono finalizzazioni di fondi già esistenti e altri 300 sono «contributi per imprese esportatrici», in carico al ministero degli Esteri. In tutto sono 723 milioni da sottrarre a 1,6 miliardi, anche perché come gli amministratori hanno spiegato all’altro vicepremier, Antonio Tajani (anche lui presente alla riunione), le imprese esportatrici sono meno del previsto e comunque quei soldi andrebbero destinati alla ricostruzione.

Di fatto, sottolineano i sindaci, c’è un sovraccarico di risorse su ammortizzatori sociali, export e altre voci, che fa scendere a circa 500 milioni le risorse realmente destinate all’emergenza (di cui 200 milioni per il fondo emergenze, e altri 45 milioni di incremento). Una cifra che è molto vicina a quei 300 milioni che il governo aveva annunciato all’indomani della tragedia in Romagna, prima di rendersi conto che appariva troppo bassa.

Sorgente: Post alluvione, lite Meloni-Salvini: la premier contro tutti – La Stampa

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