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di Claudio Del Frate

Iniziativa del deputato a tutela della lingua nazionale nella pubblica amministrazione. L’esempio di Francia e Spagna e i 9.000 anglicismi censiti dalla Treccani. Ma il problema resta il «burocratese»

Torneremo a chiamare «arzente» il cognac o «Tristezze di San Luigi» il brano jazz «St.Louis blues» come ai tempi del Ventennio? Oppure, più prosaicamente imiteremo francesi che usano «ordinateur» in luogo di «computer»? Tocca uno dei temi pop più dibattuti la proposta di legge avanzata dal deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli che punta a disincentivare l’uso di termini stranieri al posto dell’italiano e si spinge a chiedere multe per responsabili della pubblica amministrazione che eccedono in anglicismi. Il parlamentare meloniano invoca sanzioni fino a 100.000 euro.

C’è chi vi leggerà nostalgie autarchiche o scioviniste e chi invece una lotta al malvezzo – in verità molto sentito e oggetto di sarcasmo – di ricorrere all’inglese per darsi un tono; tipo al ricorso a termine «smartabile» (per indicare un lavoro che può essere eseguito da casa), «mission» o «feedback». Nero su bianco c’è il provvedimento depositato da Rampelli che il primo firmatario definisce «contro l’eccesso di forestierismo» ( Insomma…) e che vuole punire l’abuso di lingue straniere.

L’articolo uno della proposta recita che «La Repubblica garantisce l’uso della lingua italiana in tutti i rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nonché in ogni sede giurisdizionale». Quelli successivi stabiliscono – con il rischio di scivolare nell’ovvio – che «la lingua italiana è obbligatoria per la promozione e la fruizione di beni e servizi pubblici sul territorio nazionale». O ancora che «Chiunque ricopre cariche all’interno delle istituzioni italiane, della pubblica amministrazione, di società a maggioranza pubblica e di fondazioni è tenuto alla conoscenza e alla padronanza scritta e orale della lingua italiana».

Qualche perplessità potrà suscitare l’articolo che stabilisce «negli istituti scolastici di ogni ordine e grado e nelle università pubbliche italiane “le offerte formative non specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana». In realtà molti atenei italiani oggi offrono corsi di laurea e lezioni in inglese proprio per attirare studenti stranieri e favorire l’interscambio culturale.

Ma il passaggio chiave è contenuto nell’articolo 8 della proposta: «La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro». Come stabilire quando sarà valicata la «linea del Piave» a difesa nella lingua nazionale? E come metterla col fatto – immediatamente fatto notare – che proprio il governo Meloni ha istituito il «ministero del made in Italy»?

L’iniziativa di Rampelli e dei suoi colleghi in realtà tocca un tema sentito e trattato e sollevato in più sedi. Il dizionario Treccani, ad esempio include già oggi circa 9.000anglicismi su circa 800.000 termini. Ma già Francia e Spagna hanno adottato leggi che tendono a scoraggiare l’uso di termini stranieri nella pubblica amministrazione.

Sul punto, in realtà, un’obiezione è fin troppo facile. Nel linguaggio adottato dalla pubblica amministrazione molto spesso il problema non è tanto l’invadenza dell’inglese ma il maltrattamento dell’italiano. È del 2020 un accordo tra Accademia della Crusca e ministero della funzione pubblica per «ripulire> il linguaggio dal burocratese. Un problema non novo tanto che un «codice di stile ad uso delle amministrazione pubbliche» era già stato messo a punto nel 1993. A firma dell’allora ministro Sabino Cassese.

Sorgente: La proposta di Rampelli (FdI): «Multa fino a 100.000 euro per chi usa troppi termini inglesi»

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