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Lo scorso 18 ottobre cinquanta piazze in tutto il paese hanno celebrato la rivolta giovanile contro il modello neoliberale introdotto dalla dittatura di Pinochet. Ventiquattro mesi tra scenari elettorali, processo costituente e tensioni sociali

Alberto Pesapane | Orso Colombo *

Il 18 ottobre il popolo cileno ha festeggiato i primi due anni di estallido social. Oltre cinquanta iniziative su tutto il territorio nazionale hanno reso omaggio alla rivolta giovanile sorta per l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana di 30 pesos e divenuta ben presto una contestazione strutturale di tutto il sistema neoliberale, imposto durante il periodo della dittatura di Augusto Pinochet. Le forti contraddizioni del modello economico e politico, le tenaci disuguaglianze (il 39% della popolazione vive in condizioni di povertà e il 50% dei lavoratori guadagna meno di 400 euro al mese), la privatizzazione del sistema scolastico, pensionistico e del settore della salute, la crisi di legittimità di un’intera classe politica sono solo alcuni degli elementi centrali che hanno dato sfogo alle moltitudini di questi due anni.

Le tante piazze hanno ricordato le persone assassinate dalla polizia, i manifestanti che hanno perso la vista a seguito di proiettili di gomma e lacrimogeni sparati ad altezza uomo, i prigionieri politici, le centinaia di persone incarcerate senza condanna definitiva e, d’altro canto, denunciato la violazione permanente e sistematica dei diritti umani da parte dell’apparato repressivo del governo. Hanno ribadito anche l’importanza della mobilitazione dei movimenti, come strumento di pressione politica da esercitare nei confronti dell’incipiente processo costituente.

L’epicentro della commemorazione del 18-O è stato naturalmente Plaza Dignidad, scenario della più grande manifestazione della storia cilena (la marcha más grande de Chile) tra l’Alameda, la facoltà di Giurisprudenza dell’Universidad de Chile e il Centro Culturale Gabriela Mistral. Non solo si è mobilitata la zona centrale della capitale Santiago, ma anche i centri urbani minori, da Antofagasta a Concepción, oltre alle poblaciones, le grandi periferie urbane che, sin dai tempi della dittatura militare, rappresentano un esempio di resistenza, come Villa Francia, Lo Hermida, Peñaloén e La Victoria.

A due anni dall’inizio della rivolta, ci sono state solo quattro condanne nei confronti delle forze dell’ordine, laddove l’Instituto Nacional de Derechos Humanos (Indh) ha denunciato più di tremila episodi di violenza sistematica. Dall’inizio dell’estallido social sono oltre trenta le vittime mortali per mano delle forze dell’ordine, più di mille i feriti e 460 le persone che hanno subito traumi oculari. Secondo Amnesty International, l’Indh e altre associazioni di diritti umani, ci sarebbe un clima generale d’impunità e di omissione deliberata dinanzi ai molteplici episodi di uso sproporzionato della forza pubblica. Un trattamento ben diverso, invece, è quello riservato ai manifestanti detenuti nello stesso periodo, circa 800 persone, i presos políticos della rivolta, per i quali i movimenti e le associazioni di familiari rivendicano un progetto di indulto che potrebbe scaturire dalla Costituente e da un’eventuale svolta a sinistra nelle elezioni del 21 novembre, in caso di vittoria del candidato ed ex leader studentesco Gabriel Boric, in testa in tutti i sondaggi.

Il secondo anniversario dell’estallido si celebra in un momento molto delicato per il Presidente di destra uscente, Sebastián Piñera, travolto da  un nuovo scandalo politico come conseguenza dell’inchiesta condotta dall’International consortium of investigative journalists (Icij), una rete di giornalisti investigativi di tutto il mondo che, attraverso la filtrazione di quasi dodici milioni di documenti, conosciuti come Pandora papers, ha svelato le ricchezze nascoste in paradisi fiscali di centinaia di politici, imprenditori e celebrità. Piñera appare coinvolto in un enorme conflitto d’interessi tra gli affari privati della sua famiglia e l’alta carica politica che ricopre.

Tra i documenti filtrati è apparso infatti un milionario contratto di compravendita (di oltre 150 milioni di dollari), datato 4 ottobre 2010, attraverso cui la società Minería Activa Uno SPA (controllata dalla famiglia Piñera) vendette all’azienda immobiliare Inmobiliaria Duero, dell’imprenditore cileno Carlos Alberto Delano, il pacchetto azionario di un progetto minerario-portuale, la minera Dominga, destinato all’estrazione di giacimenti di ferro e rame situati nel municipio de La Higuera, a circa 500 km a nord della capitale Santiago.

Da anni è in corso un conflitto tra i promotori del progetto e i pescatori artigianali della zona che si oppongono alla costruzione del porto argomentando che l’aumento del traffico marittimo allontanerebbe i banchi di pesce dalla costa. Vari movimenti ambientalisti, inoltre, si sono mobilitati in difesa del fragile ecosistema del vicino arcipelago di Humboldt, un gruppo di otto isolotti popolati da specie animali in pericolo d’estinzione. Per queste ragioni, il contratto, firmato nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche, includeva una clausola fondamentale: il pagamento si sarebbe effettuato in tre rate, l’ultima delle quali subordinata al fatto che il governo, nelle mani dello stesso Piñera (eletto Presidente in due occasioni, nel 2010 e nel 2018. Il mandato presidenziale in Cile è di 4 anni con possibilità di rielezione non consecutiva) non dichiarasse l’area di Dominga riserva naturale.

In sintesi, il successo della compravendita dipendeva dalla volontà politica della parte venditrice (la famiglia Piñera), generando così un conflitto di interessi aggravato dal fatto che il compratore Carlos Alberto Delano, un noto uomo d’affari cileno condannato in passato per corruzione ed evasione fiscale, era ed è una delle personalità più vicine al Presidente. L’importo stipulato nel contratto, rimasto segreto fino alla filtrazione dell’Icij, fu regolarmente pagato a fine 2011, come stabilito tra le parti. Ma c’è di più: nell’agosto 2010, appena due mesi prima della firma del contratto, Piñera annunciò la cancellazione immediata della costruzione della centrale termoelettrica Barrancones, aggiudicata al gruppo franco belga Suez, adducendo motivazioni di sostenibilità ambientale nella stessa zona in cui il Presidente aveva interessi economici personali. Piñera utilizzò il pretesto della salvaguardia ambientale solo per eliminare una possibile concorrenza con il progetto Dominga.

Data la gravità del caso, la giustizia cilena ha aperto immediatamente un’inchiesta penale, a cui si è aggiunta una mozione di destituzione firmata e sostenuta da quindici parlamentari oppositori che accusano il Presidente di aver seriamente compromesso la reputazione della nazione. Tanto in sede giudiziaria quanto politica, Piñera ha negato ogni responsabilità, affermando che dal 2009, anno in cui «scese in campo» in politica, non si occupa più degli affari di famiglia, che sarebbero gestiti esclusivamente dai suoi figli maggiori. Un’argomentazione poco solida che complica ulteriormente gli ultimi mesi del mandato presidenziale, che si chiuderà il prossimo marzo 2022.

In questo scenario di crisi di credibilità del governo si aggiunge una nuova vittima mortale durante una manifestazione di piazza. Nel corso del corteo dei popoli indigeni (il 12 ottobre i popoli originari latinoamericani rivendicano la resistenza contro il colonialismo europeo) svoltasi nella capitale cilena, l’attivista Denisse Cortés è rimasta uccisa in circostanze ancora da chiarire. Secondo le prime ricostruzioni della polizia, la morte sarebbe stata prodotta dall’impatto di materiale pirotecnico utilizzato dagli stessi manifestanti durante gli scontri. Tuttavia, la famiglia della vittima e le associazioni dei diritti umani che accompagnano questo tipo di manifestazioni non credono alla versione ufficiale, sostenendo invece che un proiettile in dotazione dei Carabineros de Chile avrebbe ferito la ragazza al polmone. Inoltre, le operazioni di soccorso del personale medico sarebbero state rallentate dal dispiegamento di un importante contingente della polizia, schierato intorno alla persona ferita che avrebbe fatto perdere minuti preziosi.

A pochi giorni dalla morte di Denisse Cortés, il governo ha deciso di gettare ulteriore benzina sul fuoco dichiarando lo stato di emergenza e la militarizzazione del Wallmapu, una macro-regione nel sud del paese (Araucania e Bio-Bio) dove le comunità mapuche portano avanti da decenni una rivendicazione di autonomia e autodeterminazione politica, economica e culturale, a partire dalla difesa del territorio. L’emanazione dello stato di emergenza nel sud del paese non rappresenta certamente una novità, laddove il conflitto non ha trovato alcuna soluzione di tipo politico. Infatti, lo Stato cileno (compresi i governi di centrosinistra della Concertación che hanno governato ininterrottamente il paese per quasi vent’anni) ha sempre privilegiato un approccio di tipo militare, ottenendo scarsi risultati. La violenza fisica e simbolica proveniente dallo Stato ha provocato una radicalizzazione da parte delle comunità mapuche come dimostra l’aumento delle azioni di sabotaggio da parte della Coordinadora Arauco Malleco, un’organizzazione politico-militare, fondata 23 anni fa, per proteggere le terre ancestrali dalla devastazione causata dalle aziende forestali (tra cui spicca l’industria del legname basata sulla coltivazione intensiva di specie esotiche come il pino e l’eucalipto, considerate nocive per il territorio), dalla costruzione di centrali idroelettriche e da altre attività economiche estrattive. Al tempo stesso, il movimento mapuche ha intrapreso una lotta per la terra, per lo più in mano a grandi gruppi economici nazionali e transnazionali. Le occupazioni delle terre hanno fornito nuove risorse a uso comunitario dei mapuche, uno spiraglio del processo di autonomia territoriale ed emancipazione economica e politica.

La discriminazione culturale del popolo mapuche e degli altri popoli indigeni rappresenta un elemento strutturale della politica cilena fin dai tempi della colonia. L’occupazione della Araucania cilena e della Patagonia argentina a metà del diciannovesimo secolo sottomise le comunità mapuche. La consistente migrazione europea nelle regioni della Patagonia ed Araucania (soprattutto la migrazione tedesca a seguito della Seconda Guerra Mondiale) contribuì alla marginalizzazione delle comunità indigene, cacciandole dai territori ancestrali e relegandole nelle periferie urbane.

Pertanto, la militarizzazione degli ultimi giorni non sembrerebbe rispondere a un’esigenza di ordine e sicurezza, dovuta a un’escalation di violenza nel sud del Paese, ma appare piuttosto una manovra per sviare l’attenzione dai problemi personali del Presidente e, allo stesso tempo, una mossa elettorale per attirare i voti dell’estrema destra che da anni spinge per una soluzione manu militari, con l’applicazione di un regolamento criminalistico e una legislazione anti-terroristica nei confronti dei mapuche.

Il conflitto nell’Araucania è, insieme alle rivendicazioni scaturite nel corso della rivolta di ottobre 2019, uno dei temi più importanti dell’agenda politica nazionale. L’elezione di diciassette costituenti appartenenti alle comunità indigene rilancia l’importanza delle rivendicazioni etnico-territoriali nel dibattito per una nuova Carta Magna. La nomina a presidente dell’Assemblea Costituente di una donna mapuche, Elisa Loncón, costituisce inoltre un primo passo per la configurazione di uno Stato Plurinazionale e il riconoscimento dei diritti territoriali dei popoli indigeni.

In questo senso, è importante ricordare che la data del 18 ottobre è stata scelta come l’inizio formale del dibattito di fondo per la redazione della nuova Costituzione. La direzione della Convenzione Costituente, infatti, ha scelto questa data simbolica per concludere la fase di organizzazione dell’organo legislativo, iniziata lo scorso 4 luglio, durante la quale i 155 costituenti hanno concordato e votato il regolamento interno e composto le commissioni tematiche di lavoro. La Costituente disporrà ora di sei mesi (più un’eventuale proroga di ulteriori tre mesi) per redigere il testo che sostituirà la Costituzione pinochetista.

La principale polemica sorta durante le prime settimane di lavoro ha riguardato il numero di voti necessari per approvare gli articoli del futuro testo costituzionale. La proposta degli esponenti della sinistra movimentista era un quorum di tre quinti equivalente a 93 voti. L’iniziativa fu bocciata dal resto dell’assemblea che ha deciso di mantenere il quorum dei due terzi che richiede il voto affermativo di 104 costituenti. Mentre i primi denunciano che si tratta dell’ennesima manovra della vecchia politica dei partiti politici tradizionali per evitare modifiche sostanziali e proteggere lo status quo, i secondi affermano che è una maniera per fomentare gli accordi e i punti di incontro trasversali conferendo alla futura Carta magna una più ampia legittimità.

Allo stesso tempo è stato approvato un meccanismo per promuovere l’interazione tra i membri della Costituente e la cittadinanza interessata ad apportare spunti al dibattito costituzionale. Con la raccolta di 15 mila firme in almeno quattro regioni del Paese si potranno presentare progetti di articoli costituzionali che l’assemblea dovrà obbligatoriamente analizzare e votare applicando gli stessi parametri di una proposta interna della Costituente.

Il Cile inizia così un periodo fondamentale per il suo futuro prossimo, caratterizzato dalle imminenti elezioni presidenziali di novembre, dal dibattito costituzionale, e dagli scandali intorno al già screditato Presidente della Repubblica. Anche se il clima politico degli ultimi due anni sembrerebbe indicare uno «spostamento a sinistra» di una parte consistente della società e della politica, le forze conservatrici difenderanno gli enormi privilegi acquisiti durante la dittatura militare e mantenuti, o addirittura aumentati, negli ultimi tre decenni di democrazia formale. In una recente intervista a Jacobin América Latina, la deputata comunista Camila Vallejo ha affermato che la destra cilena si caratterizza per una forte coscienza di classe che genera una risposta rapida ed efficace di fronte a ogni minimo cambio dello status quo.

Pertanto, l’esito dell’attuale congiuntura politica dipenderà non solo dai rapporti di forza espressi nel processo costituente e nelle urne, ma anche e soprattutto dalla capacità di mantenere una pressione popolare costruttiva, attraverso una mobilitazione permanente capace di contrastare la reazione conservatrice ed evitare un risultato finale «gattopardesco». In questo senso, come recitava uno striscione apparso il 18 ottobre in Plaza Dignidad: «solo grazie alle lotta, è possibile avanzare».

*Orso Colombo è ricercatore in studi latinoamericani presso l’Universidad Nacional de Colombia. È analista di conflitti territoriali e geopolitica latinoamericana. Alberto Pesapane è avvocato in Argentina e studente del master in studi latinoamericani presso l’Universidad Nacional de San Martín della provincia di Buenos Aires. 

Sorgente: Due anni di rivolta in Cile – Jacobin Italia

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