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La giovane eletta nel 2003 aveva acceso i riflettori sul potere dei signori della guerra. Oggi è costretta a stare nascosta. E sull’accordo con i talebani dice: «La pace senza giustizia non vale nulla»

di Andrea Nicastro

Gli Afghan Papers ottenuti dal Washington Post hanno mostrato che nascosti dietro dichiarazioni ufficiali praticamente identiche per 18 anni («Stiamo vincendo», «Siamo sulla strada giusta», «La strategia è corretta») i responsabili della guerra americana in Afghanistan hanno dubbi, incertezze e spesso finiscono per pensare il contrario di quel che dicono: non riusciamo a vincere perché non sappiamo come fare. Nessun generale, politico, ambasciatore può dire: «Avevo ragione io». Malalai Joya sì. Era il 2003, Malalai era stata eletta nell’assemblea costituente dell’Afghanistan post talebano. A dirigere la riunione un religioso con turbante e barba bianca che se nulla fosse cambiato da quando gli studenti del Corano vietavano la musica e frustavano le caviglie che spuntavano dal burqa delle donne. Nella grande tenda c’erano mantelli, veli, tuniche, kajal sotto gli occhi dei maschi ed hennè sulla punta delle barbe: pareva un film su antiche tribù delle steppe. Lei, ragazzina, chiede la parola. Le tv internazionali registrano, il presidente acconsente. E lei attacca. «Perché i Signori della Guerra dirigono quest’assemblea? Perché i responsabili della distruzione del nostro Paese sono qui? L’Afghanistan è al centro di un conflitto internazionale dobbiamo uscirne». I comandanti militari si alzano, i loro vassalli insorgono, quelli che gli Afghan Paper definiranno «persone malvage anche secondo gli standard afghani» esigono la sua cacciata. La ragazzina viene espulsa dall’assemblea.

«Da allora vivo sotto scorta. Continuamente minacciata. Ospite di amici, in case più sicure di quella di mio marito che rischia a farsi vedere con me. Come mio figlio di sette anni che riesco ad abbracciare di rado per non mettere in pericolo anche lui». Malalai Joya deve contare sulla famiglia per pagare la scorta armata. Sulla famiglia e sui diritti d’autore di un libro che ha venduto in tutto il mondo, “Finché avrò voce” (Piemme), in cui ha continuato a denunciare la collusione tra il governo post talebano di Kabul sostenuto dalla comunità internazionale e i Signori della Guerra che si arricchiscono combattendo al servizio di una o di un’altra potenza. Di passaggio a Milano per una serie di incontri organizzati dalla onlus Cisda, ha parlato con il Corriere.

Malalai com’è cambiato l’Afghanistan dal 2001?
«Tre milioni di afghani sono tossicodipendenti. Abbiamo il record mondiale per la morte infantile. I diritti umani sono calpestati continuamente, per le donne certo, ma anche per gli uomini. I talebani controllano molte aree del Paese, hanno i loro tribunali e le ragazze non hanno il permesso di studiare. Nei palazzi del potere sovvenzionati dall’Occidente ormai è chiaro che oltre a tangenti e droga si vendono posizioni di lavoro in cambio di rapporti sessuali. La nazionale di calcio femminile ha avuto il coraggio di denunciare i propri manager per violenza sessuale. Coraggiose, no? Ma il presidente della Federazione calcio che gestiva lo spogliatoio come un postribolo non è stato punito. Era e resta un potente Signore della guerra, con milizie armate che lo difendono e nessuno ha il coraggio di metterlo in cella. L’eccezionalità della storia è che abbia perso la poltrona, non che sia impunito».

E i miliardi spesi dall’Occidente?
«Sono finiti alle vostre fabbriche di armi o nelle tasche dei nostri Signori della guerra. Hanno inventato un proverbio a Kabul: l’unico lavoro sicuro in Afghanistan è il becchino. Si muore per gli attentati suicidi, per i bombardamenti sbagliati e per l’inquinamento».

Per questo tanti scappano?
«Già e ormai vengono rispediti indietro. Anche dall’Europa. Basterebbe seguire il destino dei deportati per capire la tragedia del Paese. Per arrivare da voi si sono indebitati. Quando tornano senza soldi possono solo arruolarsi in qualche milizia, drogarsi o suicidarsi. Una via d’uscita positiva non c’è».

Chi li arruola?
«Tutti: polizia, esercito, talebani o Isis. Cambiano le sigle, ma gli stipendi sono simili attorno ai 600 dollari al mese. E i fondi vengono dall’estero. Se le potenze straniere ci lasciassero in pace, noi afghani riusciremmo a fare la pace. Nel frattempo muoriamo: negli ultimi 4 anni quasi 50mila soldati della “dollar army”, l’esercito regolare, sono stati uccisi».

Cosa pensi delle trattative di pace con i talebani?
«La pace senza giustizia non vale nulla. Questa gente che tratta in Qatar con gli americani ha le mani sporche di sangue e non si è mai pentita. E poi, chi rappresenta? Basta l’esempio di Gulbuddin Heckmatiar, un Signore della guerra che nonostante abbia bombardato Kabul per anni, è stato tolto dalla lista dei criminali, accettato come candidato presidenziale e oggi è seduto in un bell’ufficio nella capitale. E’ servito a qualcosa riabilitarlo? Nelle sue aree continua a spadroneggiare come prima. Lo stesso faranno i talebani anche perché quelli che trattano con Washington sono solo una fazione. Poi c’è l’Isis, poi i talebani finanziati dai russi, quelli foraggiati dal Pakistan, dalla Cina, dall’Iran. Senza un accordo internazionale ci sarà sempre qualcuno pronto a combattere. Il rischio della pace è che abbia successo e unisca più gruppi talebani rendendoli più forti e ancora più capaci di massacrare civili».

Perché non ci sono ancora i risultati delle elezioni presidenziali di settembre?
«Perché sono state una barzelletta: non un’elezione, ma una selezione, devono ancora decidere chi far vincere. Purtroppo in queste condizioni è più importante chi conta i voti piuttosto di chi li mette nell’urna. Quando gli americani avranno deciso, verrà annunciato il risultato. Magari com’è successo nel 2014 quando hanno inventato uno Stato bicefalo con i due più importanti candidati a spartirsi lo stesso osso. Tecnocrati filoamericani da una parte e Signori della guerra dall’altra. Adesso vorranno inserire nel banchetto anche i talebani, ma l’osso è sempre quello: droga, armi e violenza contro i civili».

Neppure un barlume di ottimismo?
«Sì, molti lavorano per il bene del Paese, molti hanno preso consapevolezza in questi anni, hanno capito che ci vuole giustizia, che non c’è futuro se si scende a compromessi con chi non ha scrupoli, non si vergogna a massacrare innocenti».

Sorgente: Afghan Papers, l’attivista: «Denuncio la corruzione da anni e per questo vivo sotto scorta»

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