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I sei prigionieri palestinesi che si sono liberati fuggendo dalla prigione israeliana di Gilboa il 6/9/2021, hanno fatto ciò che gli uomini liberi non potevano, un paradosso che ha colpito tutti, di vergogna e dolore.

Stavano aspettando che qualcuno gridasse e capovolgesse il tavolo e li aiutasse a cambiare l’equazione. Lunghi e amari anni hanno trascorso dentro le loro prigioni assediati dal tempo e dalle catene. Quarant’anni trascorsi da prigionieri in carcere, centinaia di ergastoli, centinaia di prigionieri caduti come martiri, centinaia di prigionieri malati che combattono la morte, le porte sono arrugginite e cambiate più di una volta, anche loro, i prigionieri, sono invecchiati, sentono solo parole, nessuno scava la speranza in un discorso politico o in un poema simile ad un’ascia.

Per questo i prigionieri hanno scavato, con le loro ossa, la loro fame, i loro sogni, le loro anime e le loro ferite, il muro della prigione. Hanno cercato aiuto nella pazienza e nella preghiera, con l’acqua, il sale, la fame e la profezia della memoria e della loro ferrea determinazione.

I sei prigionieri conoscevano la strada, fuggendo in avanti, fuggendo in patria, non c’è bisogno di una mappa, navigatore o esperto, la terra è la loro guida, i frutteti, le stelle, le nuvole, l’aria del Mediterraneo e le loro anime ribelli. Sei prigionieri, hanno attraversato la prigione di Gilboa, (cassaforte come veniva descritta) armata e fortificata con i più sofisticati dispositivi di sicurezza e tecnologie avanzate, hanno abbracciato la città di Beisan in quell’alba palestinese, sono usciti da sotto terra e dal fondo della cella e hanno respirato l’aria della libertà.

Il governo di occupazione ha mobilitato il suo esercito, gli aerei e le unità speciali, e ha perquisito ogni pietra, roccia e luogo per trovarli e arrestarli, ma gli alberi erano i loro guardiani, e il tubare dei piccioni e la luna mostravano loro la strada.

Sei prigionieri palestinesi hanno dichiarato vittoria, e hanno vinto contro il regime di oppressione sionista: le sue guardie, le sue torri e le sue telecamere di sorveglianza, le sue recinzioni e i suoi cani poliziotto, contro l’occupazione più lunga della storia contemporanea, contro un sistema di oppressione e repressione, contro la politica dell’apartheid.

Hanno vinto contro la forca, contro i massacri e contro gli arresti di massa arbitrari, contro l’umiliazione, la tortura e la violazione della dignità umana, hanno sconfitto la disperazione che si è trasformata in una bomba umana. Nessuno credeva che i sei prigionieri si fossero liberati dal cemento armato, dai muri, da una cassaforte di ferro blindato, da catene a mani e piedi, liberati dall’illusione della pace promessa, dai bombardamenti, dalla repressione, dai gas bomba, dall’isolamento e da malattie mortali, liberati da processi arbitrari, da isolamento e da leggi razziste ostili ai diritti umani, hanno sconfitto uno stato barbaro, uno stato di carceri, esecuzioni, campi, ghetti e filo spinato.

I sei prigionieri aspettano da tempo una vera pace per essere del tutto liberi, aspettano negoziati e una soluzione politica che affronti la loro libertà come parte essenziale del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, aspettano accordi, intese, incontri e mosse internazionali. Hanno aspettato le istituzioni per i diritti umani, la volontà della comunità internazionale e le decisioni degli organi giudiziari internazionali.

L’attesa è durata anni e anni, mentre il crimine continua. Le democrazie globali e gli accordi di diritto internazionale sono impotenti, nessuno li ha raggiunti, nessun funzionario internazionale ha bussato alla porta chiusa, all’anima imprigionata, il buio è fitto, i muri si sono fatti sempre più spessi e alti, l’oppressione sistematica ha aumentato l’escalation e la ferocia, la prigione è diventata morte, per questo i prigionieri hanno deciso di portare, loro stessi, il piccone e demolire con le proprie mani tutto questo silenzio.

I sei prigionieri, hanno camminato sul ruscello di una sorgente nella città di Beisan, hanno seguito la lingua del cuore, l’erba, i sassi e il corso d’acqua sotto terra, e il fiore di melograno che si è aperto all’alba, con le ali degli uccelli volano, nulla hanno da perdere se non le catene e le umiliazioni. I prigionieri sono convinti che la volontà dei popoli è un’arma.

I prigionieri che si sono liberati da soli, dalla prigione di Gilboa hanno liberato la paura e la resa delle anime morte. Hanno liberato non solo se stessi, ma hanno anche liberato la sottomissione ai piani e alle politiche dell’occupazione. Ci hanno liberato dall’accettare la cultura dei prigionieri e degli schiavi, la cultura delle barriere, dei cantoni e dei ghetti. Ci hanno liberato dalla soggezione al dominio del fatto compiuto.

I prigionieri hanno detto: possiamo resistere e non emigrare, possiamo raggiungere i nostri campi, moschee e chiese e affrontare coloni e soldati, possiamo raggiungere le nostre case, i nostri bambini e la famiglia, non abbiamo paura del proiettile, dell’aereo, né del bulldozer coloniale, possiamo essere vittoriosi, nulla è impossibile.

Il Diritto è la nostra grande forza e munizioni, narrazione e resistenza. La prigione israeliana di Gilboa non è più una prigione, si è trasformata in muri fragili, tutte le misure di polizia che l’hanno trasformata in una prigione inespugnabile sono fallite, tutte le competenze di sicurezza israeliane sono fallite.

Questa prigione non è stata demolita da un aereo o da un missile, non è stata bombardata con l’artiglieria, ma sei eroi prigionieri palestinesi disarmati hanno demolito questa prigione. La volontà e l’intelligenza hanno demolito la più grande prigione. È un appello degli eroi che si sono liberati da soli a demolire tutte le prigioni e i campi di detenzione.

continua…

Sorgente: Cosa ci insegnano i sei prigionieri in fuga – Contropiano

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