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I “regali” della Lega

Difficile che in un Paese come il nostro, sempre più privo di memoria, qualcuno ricordi i Cobas del latte. Protestavano contro l’imposizione da parte dell’Europa delle quote di produzione, inscenando clamorose rivolte con marce di giganteschi trattori a spargere liquami bovini sulle strade. Accadeva più di vent’anni fa, e gli intrepidi erano l’ossatura agricola della Lega di Umberto Bossi, lo stesso partito che ora guida Matteo Salvini. Il capo e agitatore dei Cobas rispondeva allora al nome di Giovanni Robusti, senatore del Carroccio nella brevissima legislatura del 1994, quella che incoronò per la prima volta Silvio Berlusconi. E poi anche europarlamentare dieci anni dopo quando ereditò lo scranno a Strasburgo direttamente da Bossi, che aveva preferito il seggio in Italia. Ma il suo rapporto con il partito non era dettato esclusivamente dalla fede politica.

 

Fin dal 1998 Robusti era in società con la finanziaria della Lega, la Fin Group, in una srl che si chiamava C.e.s.i.a., ovvero Consulenze economiche sugli interventi in agricoltura. Per di più, consigliere di amministrazione di Credieuronord, la banchetta della Lega che saltò per aria come un tappo di prosecco dopo un crac memorabile. E oltre a essere un leghista a trazione integrale (anche se nella sua biografia affiora una candidatura senza successo nel 2001 con l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro) Robusti era stato pure un protagonista diretto di quella clamorosa storia che fece pagare ai contribuenti italiani un miliardo di euro di multe comunitarie per non aver rispettato quelle famose quote. Abbastanza protagonista da finire nei guai giudiziari. Promotore di un vorticoso giro di cooperative tutte battezzate Savoia dal numero 1 al numero 6, nonché di una società, la Finanziaria Giovanni Robusti, che agiva di supporto al sistema messo in piedi insieme ai suoi amici e collaboratori, nel 2011 il tribunale d’appello di Torino l’aveva condannato a quattro anni e mezzo. Una sentenza che aveva innescato un procedimento per danno erariale alla Corte dei conti del Piemonte. Dove i giudici contabili erano arrivati alla conclusione che Robusti e gli altri del suo giro avrebbero dovuto restituire allo Stato la bellezza di 203 milioni di euro, più interessi e rivalutazioni monetarie. Tanto sarebbe costato quel giochetto a chi paga le tasse. Correva l’anno 2013 e il ricorso fu inevitabile.

 

Ci vollero però ancora quasi sei anni, e nel 2019 la sentenza d’appello confermò la condanna, riducendo l’importo del dovuto a 160 milioni e spicci, oltre naturalmente agli annessi e connessi. La vicenda, però, non era finita. Perché Robusti e gli altri indomiti cooperatori presentarono ulteriore ricorso in Cassazione, alle sezioni unite civili. Che martedì 6 luglio hanno pubblicato la loro decisione: il ricorso è rigettato. I condannati dalla Corte dei conti a questo punto dovrebbero finalmente pagare, sia pure con lo sconticino riconosciutogli in appello. E dopo vent’anni dai fatti. Ma la giustizia da noi purtroppo ha questi tempi, e poi il condizionale è d’obbligo. Perché finora a pagare sono stati soltanto gli italiani, in una vicenda per cui risultano chiarissime non soltanto le responsabilità individuali: soprattutto, quelle di certa politica. Che pochi, però, ricordano. Per finire, impossibile non notare nel collegio difensivo un nome prestigioso: quello dell’avvocato Cesare Mirabelli, già presidente della Corte costituzionale. Il quale, nel 1998, fu alla Consulta proprio il relatore, il che significa l’autore, di una sentenza sulle quote latte. Il caso, alle volte…

Sorgente: La lunga beffa del latte – la Repubblica

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