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L’impianto carcero-centrico del sistema penale, con un tasso di sovraffollamento del 106%, ha prodotto l’emergenza contagi tra detenuti e personale. E alle rivolte di inizio pandemia si è risposto con l’inasprimento della repressione

Elisa Berlin*

L’epidemia da Coronavirus ha ancora una volta evidenziato le criticità del sistema penitenziario italiano. Già lo scorso ottobre, all’alba della seconda ondata, le misure adottate dall’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede per il contenimento dell’epidemia non erano riuscite a fermare il netto incremento delle positività all’interno degli istituti carcerari. Sette mesi dopo, ai ritardi nella somministrazione delle dosi di vaccino si sono aggiunte ulteriori problematiche che spaziano dall’inadeguatezza delle nuove politiche anti-sommosse alle condizioni delle persone cui è stata improvvisamente concessa la libertà senza alcun piano di reinserimento sociale.

A fine febbraio le dosi di vaccino hanno fatto il loro ingresso anche in carcere, ma la campagna si è fin da subito rivelata incerta. Il 23 marzo il generale Francesco Paolo Figliuolo, Commissario straordinario per l’emergenza, aveva evidenziato la necessità che i detenuti rientrassero fra le categorie prioritarie. Poco più di due settimane dopo, con l’ordinanza del 9 aprile, sembrava però che le vaccinazioni nei penitenziari dovessero proseguire con gli stessi criteri indicati per la popolazione generale.

Territorializzazione del sistema sanitario e incertezza legata alle indicazioni contraddittorie del Governo hanno fatto sì che la percentuale di detenuti immunizzati variasse drasticamente fra regioni e istituti: il 29 marzo, per esempio, mentre a Bollate (Milano) la situazione sembrava essere sotto controllo, in Molise e in diverse province pugliesi le vaccinazioni dovevano ancora arrivare, nonostante le sollecitazioni regionali. Ulteriore elemento differenziante sono state le strategie adottate dalle diverse giunte: mentre in molte aree d’Italia le somministrazioni sono partite a marzo, approfittando delle prime dosi disponibili, alcune regioni, come il Lazio, hanno scelto di attendere Johnson & Johnson, facendo così slittare l’avvio delle vaccinazioni a data da destinarsi.

La speranza del Lazio era quella di sottoporre tutti i detenuti a una sola iniezione, ma nelle settimane seguenti la regione si è trovata a fare i conti con i ritardi legati alla sospensione delle somministrazioni del vaccino degli Stati uniti e il conseguente stop temporaneo alla sua distribuzione in Europa. Così, è stata costretta a tornare sui suoi passi: come annunciato dal governatore Nicola Zingaretti, la campagna vaccinale per detenuti e agenti di polizia penitenziaria è iniziata solo il 22 aprile, con Moderna. Un ritardo facilmente evitabile, se solo il concetto di «priorità» fosse stato rispettato.

Considerate le condizioni disumane che da decenni caratterizzano le carceri italiane, l’emergenza contagi che negli ultimi mesi ha colpito detenuti e personale penitenziario era prevedibile. L’ultimo rapporto Antigone ha denunciato un tasso di sovraffollamento del 106% – 53.697 detenuti totali a fronte dei 50.551 regolamentari –, in crescita da gennaio a questa parte. A questi andrebbero aggiunte, a detta della stessa amministrazione penitenziaria, circa 4 mila «situazioni transitorie» che porterebbero il tasso effettivo a raggiungere il 115%. Si tratta in ogni caso di una stima variabile, che in alcuni istituti – soprattutto in Puglia e Lombardia – sfiora il 200%. Tutto ciò rende impossibile non solo l’isolamento delle persone positive, ma anche il rispetto delle più basilari misure igieniche di prevenzione.

I dati attuali, benché allarmanti, riflettono un calo del 12% rispetto a febbraio 2020, quando i detenuti erano circa 7.500 in più. Se in prima battuta la scelta era stata quella di chiudere gli istituti per evitare l’ingresso del virus – il primo decreto legge sull’emergenza sanitaria non prendeva in considerazione le carceri, così si era optato per isolarle il più possibile –, con il decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 il governo aveva infatti virato nella direzione opposta, favorendo lo svuotamento delle celle. Ove possibile, le incarcerazioni erano state sostituite da misure alternative (come la detenzione domiciliare per condanne inferiori a diciotto mesi), mentre era aumentata la concessione di licenze premio per le persone in semilibertà. Il Decreto Ristori del 28 ottobre aveva di fatto ricalcato le stesse indicazioni.

Intanto, le persone uscite dal carcere prima del previsto si sono trovate completamente abbandonate a loro stesse. Come testimoniano alcuni ex detenuti intervistati da Antigone, la scarcerazione è stata disorganizzata: «Mi hanno chiamato dall’ufficio matricola per dirmi “Oggi esci”. Non ho più capito niente. Ho chiesto se potevo andare a prendere le mie cose in cella, ma mi stavano per fare un rapporto disciplinare dato che non mi sbrigavo a uscire […] Panico, solo panico».

La detenzione domiciliare prevede che la pena venga scontata «presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza». Anche in condizioni normali, spesso la scelta cade forzatamente sulle case di accoglienza, uniche disposte a ospitare persone rimaste completamente sole, senza un lavoro, spesso senza una famiglia e, in un terzo dei casi, con i documenti scaduti. A causa della pandemia, molte strutture di accoglienza hanno subìto chiusure o riduzione dei posti disponibili. Per chi è riuscito ad accedervi, regna lo spaesamento: «Fuori non ho casa, non ho lavoro, non ho neanche la macchina. Mia moglie ha chiesto la separazione. Ora sto aspettando di capire se c’è la possibilità di lavorare un pezzo di terra qui e ricevere uno stipendio». Tutti gli altri dovranno provvedere autonomamente alla propria reintegrazione, senza legami personali né copertura sanitaria, in una società tendenzialmente ostile e fortemente debilitata dalla pandemia.

Dato l’impianto carcero-centrico che caratterizza il nostro sistema penale, il fatto che le strutture preposte ad accogliere gli ex carcerati non siano in grado di far fronte agli imprevisti non dovrebbe sorprendere. Nonostante l’effetto recidivante del carcere sia ben noto – il 68% degli ex detenuti torna a delinquere – a oggi il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o l’affidamento ai servizi sociali, rappresenta spesso l’ultima scelta. Lo stesso termine «alternative» è in realtà illusorio, tanto che, negli ultimi anni, al crescere di tali misure è aumentata anche la popolazione detenuta. In teoria, l’estensione delle soluzioni alternative dovrebbe favorire lo svuotamento delle carceri, con il conseguente miglioramento delle condizioni di vita dei carcerati: nella realtà, il numero di detenuti sembra ormai stabilmente oltre i limiti, mentre le nuove strutture destinate all’accoglienza dei condannati contribuiscono ad aumentare il controllo penale sul territorio – il cosiddetto fenomeno del net widening.

A caratterizzare la questione delle misure alternative, oltre alla contraddizione semantica, vi è il paradosso economico. Ogni anno, degli oltre 8 miliardi di euro spesi per l’amministrazione della giustizia, il 35% finisce nel carcere. Per il 2021 sono aumentati i fondi destinati a canoni, utenze e riparazioni strutturali, mentre sono rimasti invariati quelli per la rieducazione dei detenuti – anche interna agli istituti. Lo Stato spende circa 12€ per ogni persona nell’area penale esterna, a fronte dei 143€ per detenuto. Una reale deflazione numerica si tradurrebbe quindi in un enorme risparmio di denaro che potrebbe essere investito in soluzioni più efficaci e più economiche, potenziando gli spazi e le risorse delle strutture destinate ad accompagnare gli ex detenuti verso una nuova vita.

Chi pensa che più fondi destinati al carcere implichino migliori condizioni di vita per i detenuti cade nuovamente in errore, e tale contraddizione riguarda in particolar modo le donne. Le detenute risentono da sempre di una doppia pena che vede, accanto alla reclusione punitiva, l’assenza di spazi a loro dedicati e di personale idoneo alle necessità femminili. Solo il 4% della popolazione detenuta è donna e così, nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse economiche vengono dirottate agli istituti maschili. Essere in minoranza numerica non dovrebbe incidere sulla qualità di vita, ma nella realtà accade esattamente il contrario: le cinque case di reclusione femminili presenti sul territorio italiano ospitano meno di un quarto delle detenute, mentre le altre sono distribuite in sezioni femminili all’interno delle carceri maschili.

Vivere in strutture disegnate per gli uomini significa non poter contare su un servizio di ginecologia, di ostetricia o, spesso, nemmeno su un bidet all’interno delle celle. Non in tutte le strutture che ospitano anche i figli delle detenute è previsto un pediatra. Nell’ultimo anno, la precarietà della situazione sanitaria è stata ulteriormente debilitata dai focolai registrati nelle carceri femminili di Rebibbia e Torino – in quest’ultimo caso sono stati contagiati anche dei bambini, per i quali il carcere dovrebbe rappresentare tutto fuorché il luogo di residenza.

Proprio in riferimento a Rebibbia, dove l’esclusiva femminile dovrebbe perlomeno garantire strutture igieniche adeguate, nel 2017 una ex detenuta dichiarava a Radio Radicale: «Siamo arrivate a essere otto nella stessa cella, con un solo bagno, in uno spazio dove cucinavamo anche». La situazione non migliora a Benevento: «Non abbiamo il bidet e spesso non possiamo neanche farci la doccia perchè manca l’acqua calda». A ciò si aggiungono quasi inesistenti opportunità lavorative mentre, in alcuni casi, viene negata persino la maternità, nonostante la tutela dei minori dovrebbe rappresentare la priorità: «Mi si sono rotte le acque in carcere. Solo dopo un’ora […] mi hanno portato in ospedale. Ci sono rimasta il tempo per partorire. Dopo tre giorni io sono tornata in carcere mentre mio figlio è rimasto in clinica: l’ho allattato a distanza tirandomi il latte con il tiralatte». In alternativa, spesso i figli vivono in carcere con la madre i primi sei anni della loro vita.

Negli ultimi mesi, nuovi provvedimenti hanno infine riguardato il coordinamento del personale carcerario. Nel corso delle rivolte di marzo 2020 evasero decine di detenuti, interi reparti furono distrutti e si contarono 13 morti, principalmente a causa delle overdose di metadone e psicofarmaci razziati nelle farmacie. Lo scorso 29 gennaio l’allora capo della polizia Franco Gabrielli ha quindi varato alcuni piani di intervento da attuare nel caso si verificassero nuove ribellioni. Il protocollo riduce drasticamente il potere dei direttori degli istituti – legalmente responsabili della polizia penitenziaria – e accresce quello dei questori provinciali, responsabili del coordinamento delle forze armate pubbliche. In caso di rivolte, quindi, misure di «contenimento», come il dialogo o la mediazione, saranno affiancate dal dispiegamento della forza pubblica «a scopo dissuasivo»: reparto mobile, carabinieri e finanzieri potranno munirsi di idranti o elicotteri.

Non è chiaro se, nel redigere il nuovo piano, Gabrielli abbia agito autonomamente o in concerto con i ministri preposti – nel primo caso si tratterebbe di una netta e illegittima invasione di competenza. È evidente, però, che nel documento il capo della polizia si sia dimenticato di accennare al divieto per il personale armato di ricorrere a violenza o tortura sui detenuti – dettaglio non da poco, alla luce di quanto sembrerebbe accaduto all’epoca delle ultime rivolte. Resta egualmente imprecisato se l’ingresso dei corpi armati in carcere dovrà essere autorizzato anche dal direttore o il suo potere verrà bellamente scavalcato. Nonostante il piano preveda che gli interventi seguano «un criterio crescente di minaccia» si tratta, nel complesso, di misure tendenzialmente repressive che ancora una volta aggirano la vera radice del problema: sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie inaccettabili.

È evidente che il carcere italiano ha fallito in quella che, anche a detta della stessa Costituzione, dovrebbe rappresentare la sua funzione primaria: la rieducazione di chi commette reati. L’esperienza carceraria, invece di colmare la frattura che si è creata fra condannati e società, l’amplifica: dietro alle sbarre la persona diventa un numero, perde diritti e dignità e vive ogni giorno all’insegna della sopravvivenza. Dopo anni di deprivazione materiale, relazionale, sessuale ed emotiva, in cui il detenuto non ha potuto sperimentare rapporti umani positivi, ha disimparato a comunicare ed è rimasto escluso dal mondo del lavoro, la recidiva diventa una conseguenza quasi necessaria. Per questo potenziare la reclusione, in un’ottica repressiva e castigante, significa rendere la pena non solo inutile, ma anche controproducente.

Dal Recovery Fund arriveranno all’Italia oltre 200 miliardi di euro, e una parte sarà destinata alla Giustizia e al sistema penitenziario. Lo scorso dicembre, inoltre, è stato approvato un emendamento che prevede l’allocazione di un milione e mezzo di euro per finanziare le case famiglia protette, dove le detenute madri potranno alloggiare con i figli senza che questi subiscano le mura del carcere fin dai primissimi giorni di vita. È essenziale che i prossimi investimenti riflettano un netto cambio di prospettiva: mantenere inalterate le attuali misure detentive, invece di potenziare soluzioni più economiche ed efficaci in ottica risocializzativa, potrebbe aprire la strada al collasso definitivo del sistema penale.

*Elisa Berlin è studentessa magistrale di psicologia criminologica e forense all’Università di Torino. Ha studiato psicologia a Padova e a Bristol (UK). Scrive per The Vision, per cui si occupa di tematiche sociali, di salute mentale e di genere.

Sorgente: L’ennesimo fallimento delle carceri italiane – Jacobin Italia

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