0 6 minuti 3 anni

Palestina/Israele. Intervista all’ex parlamentare palestinese Haneen Zoabi: «Le politiche israeliane non prendono di mira solo la sfera privata, attraverso demolizioni e sgomberi, ma anche quella pubblica, la connessione dei palestinesi con la loro città. Per questo con la chiusura dei centri culturali, la Spianata è diventato il solo luogo religioso e laico di ritrovo»

Chiara Cruciati

«Le politiche israeliane a Gerusalemme non prendono di mira solo la sfera privata, attraverso demolizioni e sgomberi, ma la connessione dei palestinesi con la loro città. Non minacciano solo la presenza fisica, ma anche quella simbolica della sfera pubblica. L’obiettivo è abolire lo status di Gerusalemme come centro unificato e culturale di tutti i palestinesi». Così Haneen Zoabi, ex parlamentare palestinese della Knesset spiega cosa sta avvenendo da decenni in città.

Gerusalemme è da sempre epicentro della questione palestinese. I limiti alla preghiera ad al-Aqsa e gli sgomberi a Sheikh Jarrah sembrano tasselli dello stesso tentativo israeliano di minimizzare la popolazione palestinese. Cosa sta accadendo?

Siamo di fronte a un piano preciso che Israele sa di poter implementare perché ha di fronte un ambiente internazionale favorevole. Un piano composto di diverse strategie: la confisca della terra per minimizzare la presenza fisica dei palestinesi; il riconoscimento ai palestinesi della città non della cittadinanza ma di un diritto di residenza, una sorta di permesso di soggiorno condizionato come fossero stranieri e non indigeni; la demolizione di case; e la cancellazione della sfera pubblica. Così, fin dal 1967, Israele ha cacciato decine di migliaia di palestinesi. E oggi la situazione è questa: l’86% di Gerusalemme est è destinato all’uso dello Stato di Israele e dei coloni, con 350mila palestinesi che hanno a disposizione solo il 14% della terra. Un uso comunque limitato, visto che Israele non concede permessi di costruzione.

A ciò si aggiunge la limitazione degli spazi pubblici. Non si tratta solo di al-Aqsa e degli sgomberi ma della cancellazione degli spazi pubblici palestinesi. Controllare la sfera pubblica attraverso la chiusura – a seguito della Seconda Intifada – di centri culturali, parchi pubblici, istituzioni significa indebolire il sintomo dell’identità nazionale. In tal senso al Aqsa non ha solo un significato religioso, ma anche laico: con tutte le istituzioni e i centri culturali chiusi da Israele, è l’unico luogo in cui esprimere la propria identità e il proprio legame con la terra.

Haneen Zoabi

La presenza di governi di destra sempre più radicali ha dato un’accelerata al processo di espansione coloniale nei Territori occupati e al trasferimento forzato palestinese?
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento: all’aumento della violenza dei coloni, sostenuta dallo Stato. Libertà di movimento per i coloni, impunità nelle aggressioni a palestinesi, occupazione delle loro case e delle aree tra i quartieri palestinesi. Perché questo è lo scopo dello Stato israeliano: assumere il controllo degli spazi tra i quartieri per non garantire ai palestinesi continuità geografica. Inoltre Israele ha capito di avere di fronte il momento perfetto per concludere quanto iniziato nel 1967, ovvero l’israelianizzazione definita della città. Sheikh Jarrah ne è un simbolo: un quartiere di rifugiati che oggi vivono il secondo trasferimento forzato.

Non è semplicemente la continuazione di antiche politiche: siamo oggi in una nuova fase di quanto iniziato nel 1948 con l’espulsione di 67mila palestinesi da Gerusalemme ovest e nel 1967 con altre 30mila espulsioni da est. Oggi si conclude un’opera già avviata perché il momento è considerato propizio. Non è un caso che ci sia stata in questi anni un’escalation nella demolizione di case: nel 2020 ne è stato distrutto un numero tre volte maggiore della media dal 2004 al 2019. Secondo l’Onu ne sono state demolite negli ultimi dieci anni 6mila. A Sheikh Jarrah ci sono 28mila palestinesi che vivono in case su cui pendono ordini di demolizioni. Questo trasferimento silenzioso però non è più così silenzioso come in passato: oggi Israele si sente abbastanza sicuro di sé da farlo a ritmi sostenuti e con l’aiuto della violenza dei coloni. Accade sotto gli occhi della comunità internazionale e nel suo silenzio.

Sabato abbiamo assistito a un’altra marcia, quella dei palestinesi cittadini israeliani che si sono letteralmente incamminati verso la città dopo il blocco delle strade. Cosa rappresenta culturalmente e politicamente Gerusalemme per il resto dei palestinesi?

È il simbolo della lotta per la Palestina. La libertà a Gerusalemme segnerebbe la libertà per la Palestina perché è qui che Stato e coloni investono di più per eliminare la presenza palestinese. È un microcosmo di quanto accade nel resto della Palestina e allo stesso custode l’importanza politica della lotta per l’autodeterminazione. Qui non c’è l’Autorità nazionale palestinese e dunque è il confronto più puro tra popolo palestinese e occupazione.

A tal proposito appena 10 giorni fa l’Anp ha rinviato le elezioni palestinesi citando proprio Gerusalemme come giustificazione.

Gerusalemme è stata solo una scusa. È vero che in Cisgiordania e a Gaza erano felici di andare a votare, ma di fatto non sarebbe stato altro che una legittimazione degli accordi di Oslo e dell’Anp stessa, che per suo statuto rappresenta solo una porzione di popolo palestinese. Inoltre il voto non è una scelta libera se avviene sotto occupazione e colonizzazione.

Sorgente: «Gerusalemme è un microcosmo dell’occupazione israeliana e della lotta palestinese» | il manifesto

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20