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Un grande scrittore a colloquio con Filippo Grandi, l’italiano da 5 anni alla guida dell’ Unhcr. «Io sto con Dante e contro Celestino V. Bisogna esserci e trattare anche con i banditi, pur di salvare più gente possibile»

Testo di Edoardo Albinati

(tutte le fotografie cliccando il link riportato in fondo all’articolo)

Il lago sembra un fiordo norvegese. I fianchi delle montagne striate di neve strapiombano sull’acqua piatta. Attraversando un’Italia deserta e imbiancata, su treni vuoti, in stazioni vuote, sono arrivato da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Non vive in Italia ormai da decenni, e ci ritorna nella casa di famiglia a Bellagio. Tra gli altri posti ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanistan, e ha diretto l’agenzia Onu per i Palestinesi.

Filippo Grandi, 63enne, milanese, da 5 anni Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati presso l’Unhcr

È un milanese di 63 anni, sornione, acuto, eloquente, delicato nei modi eppure di polso; fiero delle sue convinzioni e pronto a prendersi rischi; posso dire di averlo visto in azione tenere a bada ogni tipo di collaboratore o di avversario, senza mai perdere la flemma, adattandosi all’interlocutore, confortando le persone scoraggiate e moderando quelle esasperate. Quasi sempre al centro di emergenze e operazioni complicatissime. Accanto al fuoco acceso comincio a tempestarlo di domande.

Perché hai cominciato a fare questo lavoro?
«Venivo da una tradizione familiare filantropica, cattolica, da una parte, dall’altra avevo un desiderio, quasi una smania di viaggiare, di conoscere altri Paesi, il che era molto tipico sia dell’età che avevo, sia degli anni in cui sono cresciuto. Non avevo un disegno chiaro, e nemmeno quando sono partito la prima volta, per la Thailandia, all’epoca in cui molta gente fuggiva dalla Cambogia dove l’esercito vietnamita aveva sgominato i Khmer rossi, mai potevo immaginare che quella sarebbe stata la mia vita».

Un’altra immagine del campo profughi Benaco, uno dei più grandi del mondo, dove vivono centinaia di migliaia di profughi. Il campo è stato organizzato dall’Onu, dalla Croce Rossa e da altre organizzazioni di soccorso

Oltre alla voglia di darsi da fare, nel lavoro umanitario contano le professionalità, cioè essere medici, infermieri, ingegneri, esperti in telecomunicazioni e logistica, avvocati, e così via. Tu invece dici “non ero specialista di niente.”
«E non lo sono nemmeno adesso! Ma questo mi ha permesso, alla fine, di occuparmi di un po’ di tutto, o meglio, di imparare a coordinare il lavoro di moltissime persone con competenze diverse. Mettere insieme, ecco l’unica cosa che so fare. Piuttosto bene».

“Only connect” era il precetto letterario del romanziere E. M. Forster…
«Lo è anche di chi si trova a occupare un ruolo come il mio. Ah, dimenticavo di dire di un’altra passione formativa, quella per le cartine geografiche. Mio nonno, ingegnere, era capace di disegnare meravigliosamente il contorno di qualsiasi Paese, io gli chiedevo “disegnami l’Italia” e lui la faceva a memoria. Poi mi spiegava che i confini non erano stati sempre questi, e me li ridisegnava a seconda delle varie epoche… »

L`Alto Commissario ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanistan. Un milanese di 63 anni, delicato e di polso

Come in un atlante storico.
«E infatti la Geografia diventava subito Storia. Allora non immaginavo che 35 anni della mia vita l’avrei passata sui confini, o occupandomi di confini».

Lo sapevi che l’insegnamento della Geografia è stato pressoché abolito nella scuola italiana?
«Sì, lo sapevo. Ed è un fatto tristissimo».

Il 14 dicembre scorso l’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha compiuto settant’anni.
«E pensa che era stato creato per durare tre anni! Oggi si occupa di 80 milioni di persone nel mondo. Rifugiati, apolidi, sfollati interni al loro Paesi».

Emigrati del Bangladesh fuggiti dalla Libia in Tunisia fanno la coda per il cibo in un campo profughi dell’Unhcr a Ras Jdir, marzo 2011 (foto Epa/Mohamed Messara)

E tu dopo il primo mandato di cinque anni sei stato appena riconfermato Commissario.
«Ho chiesto di restare in carica solo due anni e mezzo, non altri cinque. Gli amici mi hanno detto, “Hai fatto bene, sarai stanco…”. No, a dire il vero non sono affatto stanco: ma dieci anni filati sono troppi, l’organizzazione deve rinnovarsi ».

Un bilancio del tuo mandato dal 2016 a oggi?
«Io sono l’undicesimo Commissario. Ognuno dei miei predecessori si è trovato a fronteggiare crisi storiche, per dire, l’Ungheria nel 1956, poi l’Algeria, che è stata la prima emergenza in Africa di cui l’Unhcr si è occupata, quindi la più grande di tutte, l’indipendenza del Bangladesh, nel 1971, che ha provocato dieci milioni di rifugiati! E poi le altre vicende note a tutti, la Bosnia, il Ruanda, eccetera. Io sono diventato Commissario proprio nel momento in cui si creava la cosiddetta “emergenza europea”, la cui caratteristica è una fortissima politicizzazione e l’identificazione, nei Paesi più ricchi, del rifugiato come un pericolo, una minaccia da respingere in terra come in mare».

«Stiamo parlando di un caso numericamente non paragonabile ad altri molto più ingenti ma comunque grave, perché per la prima volta ha messo seriamente in discussione fino a negarli i principi stessi su cui è fondato il diritto d’asilo: e questo proprio nel continente dove è stato concepito. Dal punto di vista politico e morale, insomma, è stato un periodo molto difficile, e non ne siamo fuori, anche se qualcosa lascia sperare in meglio»

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“I rifugiati vengono respinti al confine dei paesi più ricchi. È lì il vero sbarramento, è lì che parte la demonizzazione e viene dichiarata e sbandierata l’emergenza”

Il cambio di guardia negli Stati Uniti, vuoi dire?
«Perché no? Comunque sia, il problema che si ripropone è da anni lo stesso, anche se appare un paradosso: i rifugiati vengono accolti senza troppi ostacoli nei Paesi poveri e invece respinti al confine dei paesi più ricchi. È lì il vero sbarramento, è lì che parte la demonizzazione e viene dichiarata e sbandierata l’emergenza. Di conseguenza, il mio compito principale in questi anni è stato quello di tentare di smontare questa falsificazione: una battaglia diversa dalle solite, perché non è più soltanto contro la sete, la fame o il freddo, ma contro la manipolazione, che è sempre condotta per scopi elettorali». (nella foto Epa, rifugiati lasciano il campo di Bihac, in Bosnia, dopo che un incendio ha distrutto le loro baracche il 29 dicembre 2020)

Con quali governi europei ti sei trovato meglio?
«Allora, appena tre giorni dopo il mio insediamento mi chiamò il ministro degli Esteri tedesco, Steinmeier, che ora è Presidente. Una telefonata molto calorosa e al tempo stesso preoccupata: eravamo al culmine del grande esodo dalla Siria e la cancelliera Merkel aveva pronunciato la famosa frase “Wir schaffen das”, cioè, “noi possiamo farlo”, “ci pensiamo noi”, aprendo le porte della Germania a un numero enorme di rifugiati siriani, cosa che sembrava poi dovesse pagare caro, e invece, guarda un po’, dopo cinque anni è ancora lì! Ho ammirato la sua filosofia, cioè, che non solo fosse giusta l’accoglienza, ma che fosse possibile. Noi possiamo farlo!»

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“I governi con i quali mi sono trovato meglio? Mi ricordo la telefonata di Angela Merkel ai tempi della crisi dei profughi siriani, era informata di tutto, ne sapeva più di me”

Be’ se una cosa buona la puoi fare, allora la devi fare. Questa sarebbe la mia filosofia.
«E un paio di settimane dopo mi ha telefonato lei, Angela Merkel. Era informata su tutto, persino più di me, e nel dettaglio. Aveva i numeri, sapeva i paesi d’origine, conosceva i problemi. Mi ha molto impressionato. E poi tra gli altri governi che ci sono stati vicini, vorrei portare l’esempio del Niger, un Paese invece molto povero, eppure un grandissimo modello di accoglienza». (nella foto Ap, rifugiati siriani con una foto della cancelliera tedesca Angela Merkel al loro arrivo a Monaco di Baviera, nel settembre 2015)

«Quando eravamo strangolati in Libia e cercavamo di tirar fuori più gente possibile dai centri di detenzione, il Niger ha accettato di fornirci canali di evacuazione che funzionano ancora»

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“Venivo da una tradizione filantropica. E avevo la smania di viaggiare. Poi c’era mio nonno: lui disegnava i confini dei Paesi a memoria e io su quei confini sono finito”

E Paesi, o piuttosto, governi, con cui avete avuto più guai?
«Be’, tra gli altri in Europa, soprattutto l’Ungheria. Ma non si tratta qui di fare buoni e cattivi, e poi le cose possono cambiare. Un problema grosso dovuto alla politicizzazione di cui ti parlavo, è l’esternalizzazione dell’asilo, cioè obbligare i rifugiati a fare la richiesta non nel Paese di destinazione ma in quello di transito».

«I primi a proporla sono stati gli australiani, e poi gli americani alla frontiera col Messico e ora alcuni Paesi europei insistono, ma per fortuna l’Unione Europea per ora si è rifiutata di accettare questa pratica. Immagina tu se una richiesta d’asilo dovesse essere fatta in Libia!». (nella foto Afp, migranti salgono su un treno a Budapest diretti alla frontiera con l’Austria, nel 2015)

A me stupisce, anzi mi fa proprio incazzare questo continuo richiamo ai “valori cristiani” da parte di chi li calpesta ogni giorno in ogni sua parola e ogni sua azione. Dicono di voler difendere l’identità europea dalla minaccia islamica…
«Eh già, di quali valori si parla, in effetti? Non certo la tolleranza o la solidarietà. Comunque, io, pur essendo cristiano, preferisco seguire la raccomandazione di Emma Bonino, che dice: per favore, non tiriamo in ballo i valori, perché lì il terreno è scivoloso, limitiamoci a parlare invece di leggi e di norme». (nella foto, migranti che hanno trovato riparo in un edificio abbandonato in Bosnia)

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“…il diritto d’asilo è nella Costituzione italiana e nella legislazione europea”

«Allora, il diritto d’asilo è nella Costituzione italiana e nella legislazione europea, dove la sua formulazione è molto netta e tosta. Le leggi stanno lì, sono scritte, mica si possono aggirare».

Ci sono nella storia recenti alcuni casi esemplari a dimostrare che i rifugiati, quasi sempre, non vedono l’ora di tornare a casa loro.
«Certo, pensiamo ai curdi iracheni nel ‘91, ai kossovari nel ‘99… che sono rientrati nel loro Paese a centinaia di migliaia, appena hanno potuto».

Il mito dell’invasione «è il tipico immaginario delle nazioni ricche. Se si prendono gli 80 milioni tra rifugiati e sfollati nel mondo, almeno nove su dieci sono ospitati da Paesi poveri o non hanno affatto varcato le frontiere»

Questo dovrebbe sfatare il mito dell’invasione, degli intrusi che mirano a piazzarsi in casa nostra per sempre…
«È il tipico immaginario delle nazioni ricche. Se si prendono gli 80 milioni tra rifugiati e sfollati nel mondo, almeno nove su dieci sono ospitati da Paesi poveri o non hanno affatto varcato le frontiere. Il fenomeno della gente in fuga riguarda quasi sempre i Paesi più poveri, ma viene raccontato dai Paesi ricchi: e questo falsa la prospettiva. In realtà è difficilissimo lasciare il Paese dove sei nato, e molto doloroso spezzare la propria vita». (nella foto Epa/Unhcr, Angelina Jolie tra i rifugiati siriani, in uno degli 11 campi profughi che ha visitato, in veste di inviata dell’Unhcr, sul confine tra Turchia e Siria, settembre 2012)

«Porto a esempio una delle mie prime missioni da Commissario, al tempo in cui a Damasco c’erano ancora i bombardamenti: la maggioranza dei siriani fuggiva dal proprio quartiere in quello accanto. Si spostavano di qualche chilometro, dormivano in alloggi di fortuna, ma non era in fondo meno duro il loro esilio, destinato magari a durare anni. Io gli chiedevo: “perché non siete andati più lontano?” visto che da lì si sentivano cadere le bombe, e loro mi rispondevano “perché vogliamo tornare di corsa, appena sarà possibile.” Molte delle guerre attuali hanno in realtà la forma della guerra civile».

Ricordo il ritorno degli afghani nel 2002. Fu una cosa incredibile.
«Sì, fino a ventimila rimpatriati al giorno. E parliamo di persone che erano state via anche per dieci o vent’anni, soprattutto in Pakistan e in Iran. Alla fine dell’anno erano quasi due milioni gli afghani rientrati »

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Una famiglia afghana pronta a rientrare in patria, fotografata presso il valico di Torkham, al confine con il Pakistan, nel 2002

Ma esiste ancora una differenza tra chi fugge da una guerra e chi invece dalla fame o dalla siccità?
«Noi dobbiamo mantenere questo criterio, ma il più delle volte le due cose coincidono: nei Paesi dove ci sono fame e carestia c’è spesso anche la guerra, e viceversa. In tutto il Sahel, per esempio, il cambiamento climatico si somma all’azione delle bande di terroristi. La spinta delle popolazioni a muoversi per salvarsi la vita si deve all’intreccio di questi fattori».

Spesso venite criticati per i compromessi che accettate di fare, o per essere troppo cauti in quello che dite pubblicamente.
«Guarda, l’Unhcr, come tutte le organizzazioni la cui missione è essere presenti nell’emergenza, opera il più delle volte sotto il controllo di forze che non sono affatto benevole né con noi né con la gente che siamo lì per proteggere. Stati autoritari o collassati, terroristi, bande armate. Siamo sul campo per difendere principi e norme, ma dobbiamo farlo ponendoci l’obiettivo, finché sarà possibile, di restare dove siamo, per aiutare le popolazioni»

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Il libro di Filippo Grandi «Rifugi e ritorni»

«Se ci buttano fuori da un Paese o da una regione, a decine di migliaia resteranno senza riparo. Questo ci costringe a negoziare, sempre negoziare, talvolta con delle controparti che sappiamo essere criminali, avendo come primo obiettivo mettere in salvo le persone. È una linea difficile da tracciare a priori, passato il segno può essere necessario invece denunciare le malefatte a cui assistiamo».

Quindi la priorità è “esserci”, essere presenti sul campo, a ogni costo.
«No, non a ogni costo. A volte le situazioni sono intollerabili e passarle sotto silenzio sarebbe come assolverle, quasi giustificarle. Io in quanto Commissario sono il custode della Convenzione del 1951 sullo statuto dei rifugiati, che va difesa a spada tratta. Comunque sì, la priorità è esserci, non abbandonare il campo».Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati presso l’Unhcr

Visto che entriamo nell’anno dantesco, tu sai come il sommo poeta se la prenda con Celestino V, accusandolo di viltà per aver abbandonato il seggio papale. Be’ io invece lo difendo, il povero Celestino: appena capì che era nelle mani dei banditi, cioè delle famiglie romane, se n’è andato…
«Ma il fatto è che io, nelle mani dei banditi, ci sto tutti i giorni! Se avessi fatto come Celestino, mi sarei dovuto dimettere il 2 gennaio del 2016! Quindi sto dalla parte di Dante».

« Nel nome dell’”esserci”, il mio lavoro consiste proprio nel ragionare ogni minuto su quello che si può fare e dire, fin dove si può arrivare per soccorrere chi ne ha bisogno. E ogni minuto quel confine cambia. Noi siamo 17.000 persone sparse per il mondo in posti spesso di grande insicurezza. Queste persone vanno protette ma soprattutto va protetto lo scopo del loro lavoro, che è appunto quello di proteggere. Ricordo la crisi del Ruanda nel 1994, ci fu una specie di patto coi giornalisti, in testa la bravissima Jane Standley della Bbc, che ci dissero: se voi parlate, avete chiuso. Fate il vostro lavoro, salvate la gente e basta. A raccontare le cose che avete visto e saputo ci penseremo noi». (nella foto Ap, ottobre 2001: a Kigali una donna rende omaggio agli scheletri di alcune delle migliaia di vittime del genocidio del 1994 in Ruanda)

«Ricordo la tragedia del Ruanda: 250 mila persone di etnia Hutu in un giorno solo scapparono in Tanzania. E in una settimana si formarono nello Zaire campi di rifugiati grandi come Firenze…»

Il Ruanda è stato un momento epico e tragico della tua carriera…
«Duecentocinquantamila persone di etnia Hutu in un giorno solo scapparono in Tanzania. E in una settimana si formarono nello Zaire campi di rifugiati grandi come Firenze… (Grandi si alza e va alla finestra indicando il lago). Immagina che il lago sia pieno di persone, fino all’altra sponda. Non potevamo atterrare con l’aereo, la pista era gremita di gente, una massa compatta in cammino fino all’orizzonte. E poi scoppiò il colera. Morivano come mosche, alcuni inginocchiati, senza riuscire nemmeno a sdraiarsi, come a Pompei. E come a Pompei, venivano seppelliti nella lava. Da un giorno all’altro, io venni nominato coordinatore dell’emergenza. Oltretutto, si sapeva benissimo che in mezzo a due milioni di rifugiati Hutu, mischiati agli innocenti, c’erano anche quelli che avevano massacrato i Tutsi fino a poche settimane prima, a colpi di machete».

In alcuni passaggi di un tuo libro descrivi la sensazione di ebbrezza provata al termine di giornate comunque terrificanti.
«Si tratta di una singolare mistura di ebbrezza avventurosa e di abbattimento, entusiasmo e angoscia. Sei stato sparato al centro di avvenimenti mondiali e provi una strana esaltazione che poi s’intreccia alla sofferenza vissuta per interposta persona»

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Una volontaria dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati riceve una donna afghana fuggita in Pakistan (foto Afp)

«Durante l’operazione coi ruandesi, i miei colleghi, molto professionali di giorno, la notte singhiozzavano nel sonno per l’orrore a cui avevano assistito. Va però detto in tutta onestà che i cosiddetti “umanitari” non sono le vittime, questo è chiaro, e la loro immedesimazione con la sofferenza altrui è per forza di cose transitoria. Io sono assolutamente contrario all’agiografia degli “umanitari”. Non siamo santi».

E chi è secondo te, un vero santo?
«Ad esempio, Alberto Cairo, Croce Rossa a Kabul»

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“…seria è la polemica sugli abusi sessuali, e ce ne sono stati, commessi sui beneficiari degli aiuti. Il che è davvero grave…. Occorre essere intransigenti»

Ho capito, ma non è che a forza di smitizzare si rischia di dar ragione a quelli che vi definiscono come dei burocrati privilegiati, che se ne vanno in giro a sbafo sui loro macchinoni…
«Oddio, questo è un luogo comune duro a morire. La nostra contabilità è pubblica. E si cerca in ogni modo di snellire la macchina. Da quando ci sono i social, sappiamo che a ogni lancio di una campagna di raccolta-fondi, non so, per soccorrere il milione di Rohingya in Bangladesh, cominceranno a fioccare le critiche e le accuse, che i soldi finiranno nelle tasche dei funzionari, e così via. La cosa mi tocca, mi infastidisce, ma ci sono abituato». (nella foto Getty, profughi Rohingya nel più grande campo profughi del Bangladesh)

«Assai più seria è la polemica sugli abusi sessuali, e ce ne sono stati, commessi sui beneficiari degli aiuti. Il che è davvero grave, quando invece di aiutare qualcuno te ne approfitti e gli usi violenza. Occorre essere intransigenti».

A questo proposito, ho letto che con le restrizioni dovute alla pandemia, tra i rifugiati, per esempio quelli venezuelani in Colombia, sono aumentati in modo esponenziale i maltrattamenti e le violenze sessuali, specie all’interno del nucleo familiare. Come sempre, a pagare sono i più deboli tra i deboli, e cioè le donne.
«Innanzitutto un paradosso: se prima muoversi era un modo per salvarsi la vita, ora con la pandemia quello stesso movimento può metterla a rischio. Detto ciò, l’impatto grave del Covid sulla popolazione di rifugiati sarà di tipo socioeconomico più ancora che sanitario. Il lavoro occasionale già scarso è il primo a scomparire durante un lockdown, e questo fa precipitare ulteriormente il tenore di vita». (nella foto il cantante Mika in un campo profughi dell’Unhcr in Libano)

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“In Libano — voglio ricordarlo a chi si lamenta della situazione in Europa — un abitante su cinque è un rifugiato. E il 90% dei siriani qui si è inabissato sotto la soglia della povertà”

«Porto l’esempio del Libano, dove, voglio ricordarlo a chi si lamenta della situazione in Europa, un abitante su cinque è un rifugiato. Il 90% dei siriani in Libano si è inabissato sotto la soglia della povertà, in seguito a: pandemia + crisi politico-economica + esplosione a Beirut. Prima era il 50%. E allora, cosa sta succedendo? I matrimoni forzati. Le famiglie in miseria fanno sposare le loro figlie ancora bambine, perché non siano più un peso. L’aiuto umanitario, laddove si riesce a fornirlo, non basta più: le ragazzine e le bambine smettono di andare a scuola, e vengono vendute a mariti spesso vecchi, ma che hanno i soldi…»

Ma ai rifugiati non basta fornire il sostentamento immediato, o la protezione legale. Poi che succede?
«Ovvio che il primissimo soccorso voglia dire tende, cibo, acqua, assistenza medica, e le pratiche per chiedere asilo. Questa è la parte, diciamo così, difensiva del lavoro, sull’emergenza, quindi c’è una parte costruttiva, quella di cercare soluzioni. Naturalmente sarebbe la pace, la soluzione ideale, e che tutti se ne potessero tornare tranquilli a casa loro ma è raro che il contesto lo permetta, dunque spesso bisogna ricorrere a una diplomazia creativa, per così dire. Prendiamo il caso dei sei milioni di siriani ospiti soprattutto dei paesi vicini”

Profughi siriani in marcia nella provincia turca di Edirne, bloccati nei pressi del confine greco nel febbraio 2020 (foto Bulent Kilic/Afp)

«C’è chi dice che devono tornare, soprattutto i Russi e gli alleati del governo siriano, c’è chi invece sostiene che sia prematuro dato che il conflitto è ancora in corso, ma insomma, a decidere se tornare dovrebbero essere i rifugiati stessi, no? Come gli Afghani nel 2002. Ma come spiegarsi che ci siano ancora tanti siriani fuori dal paese? Non solo perché in alcune regioni la guerra continua, ma anche perché molti di loro non sono affatto sicuri che tornando ritroverebbero la loro casa, la loro terra, che magari è stata occupata da altri».

E cosa fa allora l’UNHCR?
«Dalle guerre nei Balcani in poi, abbiamo sviluppato una notevole esperienza giuridica e amministrativa che possa dirimere i problemi di questo tipo. Ecco, il ritorno in patria dipende anche da cose così»

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“Una guerra non può dirsi veramente terminata se non hai una casa dove far ritorno»

Mi ricorda la situazione degli ebrei viennesi, i superstiti dell’Olocausto: dopo la guerra venivano invitati a tornare a Vienna, nelle loro case, che però erano state saccheggiate e ormai da anni occupate da altre famiglie…
«Certo. Il problema è drammatico comunque, anche se sembra che si tratti solo di faccende notarili. E fornendo un’assistenza specifica credo che noi possiamo in definitiva contribuire alla pace, perché una guerra non può dirsi veramente terminata se non hai una casa dove far ritorno». (nella foto, ebrei a Vienna nel ‘40, costretti dai nazisti a pulire i marciapiedi)

Tutto poi è diventato ancora più complicato quest’anno col Covid…
«In certe situazioni abbiamo dovuto intercedere perché venissero comunque tenute aperte le frontiere per permettere ai rifugiati di mettersi in salvo. E’ successo ad esempio al confine dell’Uganda, proprio all’inizio della pandemia, dodicimila persone premevano per lasciare il Congo, dove il conflitto va avanti da trent’anni. Ma noi siamo in lockdown! hanno protestato gli Ugandesi, così noi ci siamo impegnati a costruire centri di isolamento, fare i test ai rifugiati, e tutto il resto: e gli Ugandesi hanno accettato di farli entrare. Così come ha fatto il Sudan con i sessantamila tigrini in fuga dall’Etiopia. C’è da augurarsi che, una volta attenuata la pandemia, questa non venga usata come alibi per negare il diritto d’asilo. Va detto comunque che almeno cento paesi in tutto il mondo oggi hanno lasciato una porta aperta ai rifugiati nonostante il Covid».

Rifugiati congolesi cucinano in un campo profughi in Uganda, nel settembre 2006, quando la fuga di massa fu provocata dalle azioni militari dei ribelli (Afp)

Quali sono le preoccupazioni maggiori riguardo il Tigré?
«Che il conflitto duri a lungo, anche se il governo etiope vorrebbe ridurlo a una semplice operazione di polizia. E che siano stati sospesi gli interventi delle agenzie umanitarie in tutto il Tigré, dove, occorre ricordarlo, si trovano centomila rifugiati dall’Eritrea, conseguenze di una guerra durata vent’anni. Noi abbiamo quattro campi lì e attualmente solo a due abbiamo accesso. Dagli altri due sono fuggite molte persone che raccontano di aver subito soprusi di ogni genere, e una cosa allarmante è che alcuni di loro hanno riferito che a commettere quegli abusi sono militari eritrei». (nella foto Ap, piccoli rifugiati eritrei sbarcano in Etiopia, sulla sponda del fiume Tekeze)

“Nel Tigré si trovano 100 mila rifugiati dall’Eritrea… ma sono sospesi gli interventi delle agenzie umanitarie»

In territorio etiope…
«Il che, se confermato, aumenta la gravità alla situazione. Nel Tigré, oltre al conflitto interno all’Etiopia, i testimoni riferiscono la presenza di soldati eritrei che commettono violenze ai danni dei rifugiati loro concittadini, e li costringono con la forza a rimpatriare. Piuttosto difficile comprendere in questo momento chi controlli cosa, in quel territorio».

E pensare che la pace tra Etiopia e Eritrea era stata firmata neanche un anno e mezzo fa…
«E va anche ricordato che l’Etiopia ha una lunga tradizione di accoglienza dei rifugiati dai paesi vicini, e ha condotto importanti mediazioni politiche nei conflitti regionali, per esempio in Sudan»

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Profughi somali in una tendopoli poco al di là della frontiera con l’Etiopia (foto Afp)

Be’, accidenti il suo primo ministro, ha vinto nel 2019 il Nobel per la Pace!
«Abiy Ahmed Ali. Giovane, preparato, brillante. Ma si è convinto a optare per la soluzione militare. Debellare i tigrini con le armi invece che trattare».

Il Tigré messo in mezzo tra Etopia ed Eritrea. Dunque, la pace firmata per poi regolare i conti coi tigrini e il loro Fronte di Liberazione…
«E’ un’interpretazione senz’altro possibile».

C’è un aspetto che mi colpisce nel tuo lavoro: il fattore dell’imprevedibilità. Cioè, il fatto di doversi preparare a fronteggiare avvenimenti che però alla fine non accadono o prendono una direzione diversa, ad esempio l’esodo previsto di profughi dall’Iraq nella prima guerra del Golfo, nel 1990, che andò per un’altra strada: voi li aspettavate in Siria e in Giordania, e invece andarono in Turchia e in Iran. Si viene presi in contropiede da eventi clamorosi che nessuno si aspettava.
«Be’, ad esempio, il flusso immane dei Rohingya dal Myanmar era difficile da prevedere proprio in quel momento, quando l’azione violenta dell’esercito birmano ha provocato un esodo di massa inaspettato. Immagina sette o ottocentomila persone che passano la frontiera in tre giorni… e quella zona del Bangladesh è un terreno fragilissimo, una striscia tra il Myanmar e il mare, flagellato dagli uragani. Però siamo riusciti a evitare il disastro totale». (nella foto Getty, una bambina di etnia Rohingya in un campo profughi nel Bangladesh, dopo la fuga dal Myanmar)

 

“Immagina sette o ottocentomila persone che passano la frontiera in tre giorni… Però siamo riusciti a evitare il disastro totale».

«Sai, i movimenti di massa seguono dinamiche proprie, spesso sono intere comunità a muoversi. Oggi il nostro tempo di reazione è molto più rapido di una volta, in pochi giorni riusciamo a intervenire. Ci sono poi punti caldi dove il movimento è graduale anche se ingente, posti di cui si parla poco, come il Mozambico del Nord, ai confini con la Tanzania, dove sono in azione gruppi armati islamisti, che hanno costretto mezzo milione di persone a scappare, quasi tutti all’interno del paese».

Gli sfollati, le Internal Displaced Persons, IDP’s, come vengono chiamate in gergo…
«Lì in Mozambico, anche se non avevamo niente sul campo, c’è stato tempo per organizzarci poco alla volta. A proposito, ho visto le molte polemiche che si sono fatte sul numero dei vaccini anti-Covid che avranno a disposizione i paesi Europei: ce ne ha di più la Germania, no, la Francia, no, ce li avremo noi, e allora io chiedo: quante dosi di vaccino avranno il Mozambico, o l’Afghanistan, o lo Yemen?»
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Medici si preparano per visitare pazienti affetti da Covid in un ambulatorio di Nairobi, Kenia: in Africa il vaccino è ancora un miraggio (foto Afp)

Filippo, che fine ha fatto il “nuovo ordine mondiale” di cui si parlava dopo il crollo del muro di Berlino?
«Non è mai nato. O è nato morto. Oggi piuttosto viviamo in un “nuovo disordine mondiale”. Nessun rimpianto per i tempi drammatici della Guerra Fredda, ma certo lì gli schieramenti erano più chiari».

Infatti hai scritto: «Il crollo di quelle cupe certezze ha portato a un confusissimo intreccio di interessi»
«Semplificando, il dopoguerra conosce tre fasi: la lunghissima Guerra Fredda, fino alla fine degli Anni ’80, quindi un decennio di supremazia americana, caotico ma con un punto di riferimento inequivocabile, e poi il punto di svolta, l’11 settembre 2001, con la progressiva insicurezza di tale supremazia, e la nascita di un multipolarismo ingarbugliatissimo».Rifugiati yemeniti in fuga dalla guerra civile, in un campo profughi a nord di Sanaa (foto Afp)

«Libia, Siria, Yemen, tutto il corno d’Africa, sono teatri dove s’intrecciano interferenze di ogni tipo, e giocano le loro carte una dozzina di altri paesi. Si potrebbe definire un “Medioriente allargato”. In campo ci sono le superpotenze più le potenze regionali, Turchia, Emirati, l’Arabia Saudita, l’Iran. Guerre ardue da decifrare, dove ci sono degli sconfitti, di sicuro, ma quasi mai un vincitore dichiarato e definitivo. E nemmeno uno che firma la pace e poi gli dai il premio Nobel… ».

Io ogni tanto faccio mentalmente un elenco delle persone che ammiro: quali sono le tue?
«Be’, non sarà molto originale, ma un “eroe del nostro tempo” io considero Nelson Mandela e non solo per la sua lotta antiapartheid ma per quello che ha fatto dopo, il tentativo di riconciliare il Sud Africa, cioé una vera e propria rifondazione del paese; e poi Papa Francesco. Figure universalmente riconosciute o quasi. Ti ho già detto di Angela Merkel, di quanto la ammiri; e voglio aggiungere il Presidente Mattarella». (nella foto Ansa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con un gruppo di immigrati al Centro Astalli in occasione della celebrazione della Giornata mondiale del rifugiato a Roma)

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“Ho lavorato con governi italiani di ogni colore, e sempre su un problema serio, gli sbarchi, incontrando difficoltà… l’equilibrio lo ha garantito Mattarella»

«Io ho lavorato con governi italiani di ogni colore, e sempre su un problema serio, quello degli sbarchi, incontrando difficoltà e raggiungendo talora buoni risultati, ma chi è stato a garantire l’equilibrio e la salvaguardia dei diritti, nei colloqui privati quanto nelle posizioni assunte in pubblico, è stato Mattarella, e prima di lui Giorgio Napolitano. In modo realistico, certo, ma restando fermi sul principio di solidarietà».

«Una figura forse meno nota al grande pubblico è quella dell’attuale direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, bulgara. Una donna formidabile secondo me. Il Fondo Monetario è un’istituzione, come, dire, arida, difficile attribuirle un’anima, e considerata il cane da guardia dell’ordine capitalista: eppure lei vi sta portando un’attenzione assolutamente nuova verso le persone e non solo verso le dinamiche economiche. Infine Sadako Ogata, che ha guidato l’UNHCR per tutti gli anni Novanta, altra donna eccezionale da cui ho imparato moltissimo».

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Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale

Tutte più o meno personalità politiche.
«Sì, ma accomunate da un’idea di leadership come servizio, piuttosto che come espressione del proprio ego. In un’era di leader populisti, una come Angela Merkel si distingue proprio per questo. Perché mette in ombra il proprio profilo personale. Mestiere e servizio sono due parole importanti per me, ecco, sì: i ferri del mestiere, imparare a padroneggiarli, a usarli bene, ma non usarli per sé».

E uno che ammiri al di fuori di questa cerchia?
«Se vuoi ti dico uno scrittore, molto amato, Graham Greene»:

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“In Siria, nel ‘91, ci diedero un kit con l’antidoto da iniettarci contro l’antrace. “Come si usa?” domandai in un briefing. “Leggete le istruzioni,” risposero… ma le istruzioni erano in svedese»

Oggi è meno letto di un tempo…
«Be’ ma per me fin da ragazzo i suoi libri sono stati una grande passione e un’esperienza formativa, Il potere e la gloria, Il console onorario, Il nocciolo della questione, coi loro dilemmi morali e religiosi, e poi l’esotismo, il Messico, l’Africa. Agisce anche il mito di questo tipo di scrittore inglese, viaggiatore, un po’ spia, un po’ moralista, un po’ avventuriero.

Be’ allora anche Somerset Maugham.
«Certo, o Evelyn Waugh, L’inviato speciale, che si svolge in Etiopia, con accenti più comici. Anche in mezzo a situazioni dolorose e drammatiche, in un’attività come la mia hanno luogo episodi surreali. Ricordo di quando, andando in Siria, nel ‘91, ci avevano dotati di un kit con l’antidoto da iniettarci contro l’antrace. “Come si usa?” domandai durante il briefing di sicurezza. “Leggete le istruzioni,” ci risposero. Aprii la confezione. Le istruzioni erano in svedese».

(Grandi ride di cuore. La sua contagiosa eppure sobria allegria era capace di sollevare un po’ gli spiriti oppressi dal lungo coprifuoco a Kabul. Gli afghani lo amavano e lo rispettavano, gli internazionali, molto spesso nevrotizzati dal lavoro, venivano rasserenati dal suo equilibrio. E’ una fortuna avere un capo che non sbrocca mai e che ti rassicura quando sei tu a sbroccare…)

Edoardo Albinati, premio Strega 2016 con «La scuola cattolica», è l’autore di questa intervista

C’è un film divertente e amaro che racconta il lavoro umanitario come una commedia grottesca, «A perfect day», e fa ridere ma anche commuovere.
«L’ho già detto, il mondo è caotico e bisogna starci in mezzo per capirne qualcosa, se ci si riesce. E così la vita privata degli individui s’intreccia con la Storia».

Ecco, appunto, con un lavoro come il tuo, di continui spostamenti, ci si può permettere di avere una vita privata? E come la definiresti?
«La mia vita privata? Poco tempo e molta intensità».

Sorgente: Rifugiati: «Sono i paesi poveri, non quelli ricchi, ad aiutare i poveri»

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