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Comunista? Forse. Di sicuro fu castrista, chavista, peronista di sinistra, nazionalista anti-Thatcher. Riceve Estela Carlotto, la prima Madre di Plaza de Mayo, incontra Chavez, caccia Macrì

Roberto Zanini

Giocò, vinse, pisciò, perse. E va bene, questa è di Eduardo Galeano, che a calcio era uno scarpone irredimibile ma capiva di pallone e di persone, di storie e di vite, e quella di Diego Armando Maradona era ingombrante e magnifica e tremenda, con o senza una palla tra i piedi. Ma dirlo meglio non sembra possibile.

TRA GIOCARLA E PERDERLA – la partita, la vita – c’è quel labirinto di contraddizioni chiamato Diego, il genio del campo e il folle fuori, il cacciatore e il cacciato di un’industria mediatica che lo ha adorato e crocifisso a giorni alterni. Forse il solo cardine se lo portava inciso sul braccio destro: Ernesto Che Guevara, il ritratto scattato da Alberto Korda e trafugato da Giangiacomo Feltrinelli.

Certo, è mica l’unico: sant’Ernesto ce l’ha la Bruja Sebastian Veron, ce l’ha Carlitos Tevez, il Pipita Gonzalo Higuain ha preferito «Hasta la victoria siempre» alla base della schiena, per parlare solo di calciatori argentini.

MA ERA IL CHE DI DIEGO che dominava, «nessuno mai mi ha mai lasciato un’ispirazione più forte della sua». Negli anni quel Che magro e scavato si era alquanto arrotondato sul braccio sempre più florido, ormai assomigliava a Abatantuono. Ma restava lì, indiscutibile.

Comunista, Maradona? In un certo senso resistenziale, certamente. E castrista, chavista, peronista di sinistra, nazionalista argentino vendicatore delle Malvinas, con il gol della «mano de dios» e il «gol del siglo» sbattuti in faccia alla signora Thatcher che tempo prima era salpata per affondare l’incrociatore General Belgrano e con esso la tenuta politica dell’atroce dittatura nata con Videla.

Gli anni della pelota patriottica, l’amicizia con quel lestofante di Carlos Menem el Bigote, il presidente coi basettoni che impose la parità fissa peso-dollaro e mandò a catafascio una nazione – amicizia impolitica tra personaggi eccessivi.

SI FARÀ AMPIAMENTE PERDONARE, in patria e fuori. Ad esempio ricevendo Estela Carlotto, la prima Madre di Plaza de Mayo, in un ritiro mondiale dell’Argentina: «Tutti noi vogliamo verità e giustizia», disse, non aggiunse «e ritorno con vida» come le Madri perché le madri erano nel frattempo diventate nonne, e trentamila desaparecidos non sarebbero tornati mai più, né con vida né senza.

Ad esempio presentandosi a Mar del Plata nel 2005 dopo il default argentino, all’enorme protesta per la IV Cumbre de Las Americas che fece saltare lo scellerato Alca, l’accordo di libero commercio delle Americhe che era – avrebbe detto Guevara – «libera volpe in libero pollaio». Si presentò con una maglietta «Stop Bush» – e la esse di Bush era una esse runica.

IL CHE SUL BRACCIO, ma Fidel nel cuore. È il vecchio Castro che nel 2000 lo invita a Cuba per disintossicarsi dopo fastelli di tentativi andati male. Castro che morirà il 25 novembre, proprio come Diego. Cuba produce medici in grande quantità e qualità, al Centro de salud La Pradera anche medici specializzati in dipendenze.

All’Avana Maradona riesce a staccarsi dalla cocaina che gli ha avvelenato naso e cervello negli anni al Napoli, anni di speranza e di riscatto meridionale come pure di amicizie col clan Giuliano, anni in cui pippava a tutto spiano e andava all’antidoping col pene finto e l’altro argentino che butterà fuori l’Italia dal Mondiale del ‘90 non lo chiameranno più Cladio Pol Caniggia ma Claudio Pol Verina.

Negli spogliatoi italiani due estremisti di sinistra, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano e il giornalista italiano Gianni Minà, assistevano increduli a un palleggio funambolico con un’arancia. «L’ho toccata con la mano? Dite di no? Invece sì, l’ho toccata anche con la mano».

E POI INCONTRI E FOTO e amicizie: con Hugo Chavez in Venezuela, con Evo Morales in Bolivia, con Rafael Correa in Ecuador, con Lula in Brasile – tutti pericolosi caudillos secondo il Dipartimento di stato americano. Il 26 dicembre del 2019 era andato in visita alla Casa Rosada, la sede del presidente dell’Argentina, il peronista di sinistra Alberto Fernandez.

E su sua richiesta si era affacciato dal celebre balcone, gridando contro l’ex presidente di destra Macri: «Nunca mas, che se ne vada in Thailandia!» e salutando la folla. Come il capo di stato che in effetti era. Uno stato che abita tra il cuore e lo stomaco di chiunque abbia mai giocato con una palla.

Sorgente: Il Che sul braccio, Fidel nel cuore. E il gol del secolo è per le Malvinas | il manifesto

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