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Fondatrice del «Manifesto», l’intellettuale comunista pose le donne al centro del dibattito politico. Tra recensioni di Bergman e la questione femminista. Gli ultimi giorni a Parigi e i pensieri sul disfacimento del corpo

di Eliana Di Caro

Rossana Rossanda è scomparsa domenica 20 settembre all’età di 96 anni. Il testo che segue è tratto da «L’intelligenza e l’intransigenza. Rossana Rossanda» di Eliana Di Caro, contenuto nel libro «Donne nel Sessantotto», Bologna, il Mulino, 2018

«Quella di Praga è una data importante per il partito, un momento spartiacque. È con Praga che per la prima volta il Pci critica l’Unione sovietica in modo formale. Luigi Longo aveva detto esplicitamente “non sono d’accordo” e questo non si usava ». Non serve ovviamente a evitare il peggio. La notte del 21 agosto Mosca entra con i tank nella capitale cecoslovacca e se Longo è costretto a parlare di «tragico errore», la crepa che si era aperta nel ’56 con i fatti d’Ungheria si allarga e non può più richiudersi nell’animo di tanti iscritti al Pci. L’idea di una rivista, che stava maturando sin dai tempi della sconfitta di Ingrao, diventa un’urgenza politica, il luogo dell’impegno per chi non si riconosce più in quello che sta accadendo. Il primo numero del «Manifesto» uscirà il 23 giugno del ’69, scatenando una bufera.Nell’inverno di quell’anno, nella cronaca del dissenso degli eretici Luigi Pintor, Aldo Natoli e Rossana Rossanda al XII Congresso, spicca l’incipit del discorso dell’istriana: «Siamo qui riuniti mentrel’esercito di un Paese che si dice socialista sta occupando un altro Paese socialista».

Era dunque caduto nel vuoto l’invito «a un gesto di fedeltà» rivolto dal futuro segretario Enrico Berlinguer. Immediata la reazione della delegazione sovietica che si alza e se ne va, seguita dalle altre, tranne quella vietnamita alla quale non stava funzionando la traduzione simultanea. Il 24 novembre il comitato centrale decreta la radiazione dal partito: «Ebbi una stretta al cuore solo quando furono spalancate le porte abitualmente interdette ai fotografi e fummo, per così dire, dati loro in pasto. Non lo avevo previsto. Non eravamo più dei loro, dei nostri».Per lei comincia una seconda vita, la vita fuori dal Pci e dentro il «Manifesto», di cui è una mente. È l’unica donna a firmarne gli editoriali, non solo squisitamente politici. Di nuovo si congiungono le sue due sfere di interessi se è vero che, in un giornale militante come pochi, scrive articoli sul film di Ingmar Bergman Sussurri e grida e altri sulla letteratura. «Guardi – racconta a Parigi – decisivo nel “Manifesto” è stato Pintor, eravamo molto amici e andavamo molto d’accordo. Era il direttore, conosceva il giornalismo, io non l’avevo mai fatto prima». Ma lei, allora, era consapevole dell’eccezionalità del suo ruolo? Sì, lo ero: l’unico editoriale femminile che usciva era il mio; negli altri gruppi del ’68, per esempio Lotta Continua che aveva un giornale, le donne firmavano molto meno (e non gli editoriali, ndr). Ma anche Potere Operaio. Al «Manifesto» a volte siamo state più donne che uomini, durante i primianni. Io, Castellina, Lidia Menapace, Ninetta Zandegiacomi, e poi Lucia Annunziata…

Quando si fa strada in lei la questione femminista? «Quando si fa strada in Italia, subito dopo il ’68. Scopro la Libreria delle donne di Milano, con Lea Melandri. C’è la riunione delle donne a Pinarella di Cervia: dicono “noi partiamo per tre giorni”. Partono come partivano gli uomini e allora erano mariti e compagni che dovevano far da mangiare, portare i bambini dal medico, tutte cose cui non erano abituati. E questo momento segna una svolta. È un’esperienza che passa attraverso le famiglie, le coppie, un’esperienza fondante alla quale si collega per il Partito comunista anche Nilde Iotti ma soprattutto Adriana Seroni. È la prima volta che circolano i nomi delle femministe Melandri, Luisa Muraro, lo psicanalista Elvio Fachinelli, la rivista fatta per le donne “L’erba voglio”. La quantità di tutte queste cose cambia la testa della gente». E cambia anche la visione del mondo di Rossana: il tema «donne» irrompe nella sua vita ed entra nel dibattito pubblico sulle colonne del quotidiano. Cambiano i rapporti tra maschi e femmine nel giornale. «Quando gli uomini alzano la voce, le donne reagiscono. Ricordo una di loro, Giuseppina Ciuffreda, che molla uno schiaffo a un collega… Le donne di Lotta Continua fanno una manifestazione critica nei confronti del loro giornale perché le mettevano in una condizione di serie B». Poi con un repentino salto all’oggi dichiara con durezza: «Perché le donne non mollano qualche schiaffo! Si rassegnano. Se tutte le giornaliste facessero un’azione comune… Sono poco solidali tra di loro».

Una severità di giudizio che si estende anche alla questione della libertà sessuale: «Quello del ’68 è stato il primo scossone, certo, ma non è stato sufficiente. Guardi oggi quante ne vengono ammazzate, eppure corrono sempre a cercare lo stesso tipo di uomo. È molto profonda questa idea, non dico della schiavitù, ma della dipendenza. Una donna non sposata e senza un uomo sembra che abbia qualcosa che non funziona. In genere, il rapporto tra maschi e femmine non è risolto». Dagli anni Settanta lo sguardo di Rossanda include situazioni e dinamiche che prima rifiutava di mettere a tema semplicemente perché non le «vedeva» o non le riteneva utili alla causa, secondo quell’approccio intransigente che la contraddistingue (e che, per esempio, applica anche alla scrittura: ha sempre pensato di usare le parole per comunicare, e dunque in termini impersonali, non per il proprio appagamento, per la bellezza della forma: dono secondo lei riservato a pochi eletti). (…) L’aborto e la rappresentanza femminile nella politica, la legge sulla violenza sessuale (cui si arriverà solo nel 1996) e il rapporto tra femminismo e Pci sono solo alcuni dei temi che affronta sul «Manifesto», con un punto di vista mai scontato e innescando spesso dibattiti e polemiche.Nel 1984 firma un lungo pezzo sull’ambiguità della solitudine delle donne, ancora oggi di grande attualità, analizzando il doppio senso che quella condizione reca con sé: l’isolamento – inteso come il trovarsi costrette in un percorso fisso, ripetitivo, senza via d’uscita – e l’emancipazione, che porta a vivere da sole «non perché nessuno le abbia volute ma perché a un certo punto loro stesse se ne sono andate. Ma forse ancora oggi a queste donne sole la loro condizione appare, in certa misura, libera sì, ma transitoria».

Parallelamente, si consuma l’esperienza politica del Pdup (Partito di unità proletaria), nel quale «il Manifesto» – che si era presentato alle elezioni nel ’72 raccogliendo quello 0,7 per cento ferocemente definito dall’ex compagno Giancarlo Pajetta «un prefisso telefonico» – confluisce assieme allo Psiup di Vittorio Foa. Il nome completo, neanche a dirlo, è «Pdup per il comunismo». Ma il tentativo di riunificare la Nuova sinistra s’infrange nel 1977, dopo il voto del ’76 in cui aveva conquistato un magro 1,5 per cento (a fronte del 34 e rotti del Pci). Un anno dopo Rossanda decide di concentrare definitivamente le sue energie sul giornale. (…)

Chi, oggi, la conosce forse meglio di tutti, Luciana Castellina, la definisce «una donna speciale, intelligente e colta. Una militante comunista, insisto su questo perché ce n’è sempre meno. Anche adesso che è a Parigi, paralizzata su una sedia a rotelle, è sempre al telefono, vuol sapere, scrive su Sbilanciamoci.org: curiosa, interessata, come se fosse in prima linea. La potrei chiamare «vetero comunista» se l’espressione non fosse usata in modo derogativo; per me è una qualità che dice dell’impegno e della responsabilità. Continuiamo a parlarci, ogni due giorni le dico quel che succede qui. Quando c’è stato l0ultimo congresso di Sinistra italiana ha mandato un saluto, un appello nel suo stile, per niente retorico, perché continua a pensare che c’è qualcosa da fare. C’erano molti giovanissimi che non la conoscono ma sanno chi è, si sono alzati tutti in piedi non solo per applaudire: si sono messi a cantare l’Internazionale». (…)

Del resto a Parigi, nel commentare il dissolvimento del Pci e la nascita del Pds, Rossanda racconta che «è stato un lutto soprattutto quel che ne è seguito: poteva essere affrontato diversamente, studiando ed esaminando ciò che le società comuniste hanno sbagliato. Questo non lo dice nessuno. Dicono che è sbagliato tutto, non si ha voglia di andare a vedere dove realmente c’è stato un errore o più errori. Si liquida la storia dicendo la colpa è stata di Stalin: è troppo semplice». A questo fine già nel novembre 1977, ad esempio, aveva aperto e chiuso i lavori di una tre giorni a Venezia, i cui atti sono raccolti nel Quaderno numero 8 del «Manifesto», alla quale avevano partecipato diversi dissidenti dei paesi dell’Est, dall’Ungheria alla Cecoslovacchia, dalla Polonia alla Jugoslavia, per una riflessione sul sistema sovietico e un modello di socialismo altro.

La bibliografia di un’autrice come Rossana Rossanda non si esaurisce, ovviamente, con le opere citate sin qui. C’è il capitolo Brigate rosse (l’editoriale del 28 marzo del ’78, in pieno sequestro Moro, in cui sostiene che il linguaggio dei terroristi appartiene all’«album di famiglia» del Pci degli anni Cinquanta suscita molto scalpore), con Brigate Rosse. Una storia italiana; ci sono i colloqui con venti testimoni del Novecento raccolti in Quando si pensava in grande, da Allende a Lukács, da Sartre ad Althusser, da Rodinson a Delors, e molte altre pubblicazioni. Nel gennaio 2018 è uscito Questo corpo che mi abita, una raccolta di scritti curati da Lea Melandri, precedentemente apparsi su «Lapis», la rivista diretta dall’autrice femminista. Qui Rossanda fa i conti con il decadimento del corpo, frontalmente e senza sconti, da par suo: si mette a nudo, compiendo una rivoluzione a 360 gradi, lei che ha sempre ritenuto marginali certi temi, e parte da sé stessa, dal deterioramento del proprio fisico, delle proprie mani (divenute irriconoscibili, «a ogni articolazione c’è una collinetta, un cornetto, sconnesso») dalla comparsa delle proprie rughe per fare una riflessione sulla vecchiaia, sul disfacimento organico che porta a divenire altro da sé.

«Amiche mie, questa faccenda ha tanta emotività quanto una grammatica. L’ho scritta perché il corpo è intrigante. Il corpo che non si percepisce non conta. La notizia è nell’invecchiamento… Cambia la mappa delle passioni, perché cambia la carta topografica in cui mi trovo: c’è più spazio dietro che davanti. Sono libera di ricordare, scoprire, non sono libera di progettare, sono libera dal progettare. Muta il tempo, sono meno distratta, penso che c’è qualcosa che non vedrò e non mi duole più: ero una turista efferata, correvo a non perdere niente. Il giorno che il corpo manderà adirmi “Senti, sono stufo, adesso basta”, spero che mi dia il tempo di dirgli: “D’accordo. E grazie, mi sono molto divertita”».

Sorgente: Morta Rossana Rossanda, voce libera di un ’68 al femminile – Il Sole 24 ORE

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