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Per la terza notte di fila, centinaia di persone sono scese ieri in piazza ad Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme est per protestare contro l’uccisione del palestinese Halak avvenuta sabato e le discriminazioni subite esattamente come quella dei neri degli Usa

Foto tratta dal portale MEE

della redazione

Roma, 3 giugno 2020, Nena News – Centinaia di persone sono scese in strada ieri per la terza notte di fila a Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme est e altri piccoli centri per protestare contro l’uccisione da parte della polizia israeliana del 32enne palestinese Eyad al-Halak avvenuta sabato. Un coro ha unito le piazze: “Palestinian Lives Matter” chiamando esplicitamente in causa il movimento statunitense “Black Lives Matter” che lotta da anni per i diritti della popolazione discriminata nera negli Stati Uniti d’America.

L’omicidio al-Halak ha scatenato profonda indignazione: i poliziotti israeliani che lo hanno incrociato sabato hanno detto di aver pensato che fosse armato o volesse compiere un attacco. Lo hanno perciò inseguito e lo hanno ucciso con sette colpi di arma da fuoco. Nessun tentativo di arresto o di verifica dell’effettivo pericolo. Iyad è morto come sono morti tanti altri palestinesi prima di lui, sospettati di avere in mano un coltello, di voler attentare alla vita di un soldato o un poliziotto israeliano. Organizzazioni internazionali l’hanno definita la pratica dello “shoot to kill, sparare per uccidere.

Ieri ad accusare la polizia è stata anche l’insegnante di Halak. Intervistata dal canale 13 della tv israeliana, la donna ha dichiarato di aver gridato ripetutamente agli agenti che Eyad fosse disabile. Ma il suo avvertimento è caduto nel vuoto. Le proteste sono state immediate e sono state subito associate all’uccisione brutale del nero statunitense George Floyd per mano di un poliziotto bianco. Stessa discriminazione razziale, sociale, economica. Stessa disumanizzazione della vittima: siano essi neri o palestinesi poco importa perché non sono come “noi”. La polizia israeliana non “sospetta” mai se si trova di fronte un israeliano. Così come il ginocchio sul collo per 9 minuti come è capitato a Floyd non lo si vedrà mai se il presunto o vero trasgressore ha pelle di color bianco.

Da giorni i palestinesi portano avanti questo parallelismo. Non a caso ieri ad Haifa e Tel Aviv i messaggi erano per entrambi: “Giustizia per Eyad e per Geroge” recitavano. Non a caso ieri i manifestanti scandivano “Black lives matter” esattamente come “Palestinian Lives matter” perché a loro giudizio è il sistema che è alla base che è lo stesso. “La brutalità della polizia negli Usa e del governo israeliano è rimarcata dalla stessa logica suprematista coloniale che criminalizza gli oppressi e gli emarginati” ha sintetizzato sul portale Middle East Eye l’attivista Amir Marshi. Ma nella piazza di Haifa ieri si è ricordata anche Razan al-Najjar l’infermiera gazawi uccisa due anni fa da un cecchino israeliano. La “colpa” di Razan? Curare i manifestanti palestinesi feriti mentre protestavano nelle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” al confine tra la Striscia di Gaza e Israele. “Dobbiamo opporci a questi sistemi di oppressione in tutte le loro incarnazioni e luoghi in solidarietà e stando insieme”, ha aggiunto l’attivista Marshi.

I numeri parlano chiaramente: nel 2019 le forze armate israeliane hanno ucciso 132 palestinesi tra Gaza e Territori Occupati. I gruppi umanitari – da Human Rights Watch e Amnesty – hanno ripetutamente criticato Israele per l’uso “eccessivo della forza” e le sue pratiche di “uccisioni extragiudiziale” per cui raramente qualcuno ha pagato penalmente.

Sorgente: ISRAELE/TERRITORI OCCUPATI. “Palestinian Lives Matter”

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