La corsa all’oro: a che punto è la ricerca di un vaccino contro il coronavirus | Rep
Cronaca di una guerra per il vaccino contro il coronavirus. Combattuta tra Asia, Europa, Africa e Stati Uniti. In oltre cento laboratori. Sui quali incombono Big Pharma e i lupi di Wall Streetdi CARLO BONINI (COORDINAMENTO E TESTO), MICHELE BOCCI (ROMA), ELENA DUSI (ROMA), ANAIS GINORI (PARIGI), LUCA FRAIOLI (ROMA), ANTONELLO GUERRERA (LONDRA), ANNA LOMBARDI (NEW YORK), ETTORE LIVINI (MILANO), TONIA MASTROBUONI (BERLINO), FEDERICO RAMPINI (NEW YORK), FABIO TONACCI (ROMA), FILIPPO SANTELLI (PECHINO). COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. GRAFICHE E VIDEO A CURA DI GEDI VISUAL
Il destino di sette miliardi e mezzodi esseri umani, i rapporti di forza tra Stati sovrani, la ricchezza inimmaginabile di pochi, il futuro e le forme del Capitale e del Lavoro, sono appesi alla scoperta di un vaccino che liberi il pianeta dalla peste che lo ha colto. Oltre 100 progetti di ricerca, alcuni già in fase di sperimentazione, si contendono un Sacro Graal che vale tra i 30 e i 50 miliardi di euro.
E che il mondo non ha ancora deciso se battezzare “bene comune” o ultimo Eldorado del mercato e arma finale della supremazia geopolitica del ventunesimo secolo. Siamo andati a cercare in quattro continenti – Asia, Europa, Africa, Stati Uniti – le storie di questa “Gold rush”. Nei quartier generali di Big Pharma, nei listini di borsa di Wall Street, nei piccoli laboratori di qualche visionario uomo di scienza, nelle cancellerie dei Paesi di testa dell’Unione.
Abbiamo misurato la “febbre” che deve scacciare “la febbre”, e con lei il sogno di un’utopia, forse. Quella della nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala, la donna alla guida della “Global Alliance for Vaccines and Immunization”: un vaccino universale gratuito libero dalla catena del profitto. Abbiamo provato a dare una risposta alle famose cinque domande. Mai così urgenti. Cosa? Chi? Quando? Dove? Perché?
ATTO I
LUIPresi alla sprovvista
O di cosa è un vaccino e perché ci serveSiamo naif. Impariamo per imitazione o perché costretti a difenderci. Ci modifichiamo in ragione di ciò che ci circonda. È il tratto del genere umano. La sua forza e, insieme, la sua intrinseca debolezza. Se preferite, quello che fa e ha fatto la differenza tra un comune raffreddore e una strage che è arrivata a contare 350 mila morti e di cui non si vede la fine. Di coronavirus ne conosciamo diversi dalla notte dei tempi, si dice almeno dal secolo di Dante Alighieri. E, almeno tre, ci fanno comunemente soffiare il naso e alzare di qualche linea la temperatura. Poi, è arrivato lui, Sars-CoV-2.
La pallina dalla corona di spine rosso vermiglio che, rimbalzando da continente a continente, ha seminato morte, desertificato città, messo in ginocchio le economie del pianeta. Soprattutto, fatto impazzire il nostro sistema immunitario. In due mosse. La prima: confondendolo, costringendolo a consumare fino a due settimane per immaginare una reazione. La seconda: obbligandolo a una risposta eccessiva, caotica, disorganizzata.
Se volessimo semplificare, e senza che il paragone suoni profano, immaginate una partita di calcio. Dove il nostro sistema immunitario – “i dilettanti” – si misura con una squadra di Champions league maestra nel palleggio. I dilettanti si sfiniscono rincorrendo una palla che non prendono mai, schiantano di fatica quando la partita è ancora al primo tempo. E quando non ci vedono più dallo sfinimento, la squadra di Champions deve solo appoggiare la palla nella porta ormai indifesa.
Ecco, il vaccino che vale oro e che il genere umano cerca è una squadra di Champions deprivata del suo killer instinct. Uno sparring partner che somigli come una goccia d’acqua alla squadra vera che un giorno ci capiterà di affrontare. Che faccia giocare il nostro sistema immunitario da dilettanti, lo addestri a riconoscere schemi, traiettorie, ma che non vada mai in gol. O, comunque, che non faccia mai un gol più dei dilettanti. Che ci lasci vivi.
Il nostro sistema immunitario si può allenare con due tipi di sparring partner: un virus intero, purché attenuato (una squadra al completo, per restare nella similitudine calcistica), o, al contrario, con un singolo frammento del virus, incapace di essere letale (uno degli 11 campioni). Ebbene, iniettare nell’organismo un virus intero è il metodo storico con cui si creano i vaccini. Oggi, per la pandemia di Covid-19, dei 100 progetti di ricerca nel mondo, 7 (è il dato che si ricava da un censimento di “Nature”) sono al lavoro con questa tecnica. Che ha un rischio. Che il virus intero possa svegliarsi dal suo torpore indotto in laboratorio. È accaduto in questi giorni in Cina: un volontario sottoposto alla sperimentazione di un vaccino prodotto dalla biotech Sinovac con un coronavirus attenuato ha avuto per due giorni febbre alta e difficoltà respiratoria. È guarito.
“Ma non è questa la strada. Non è un rischio accettabile, almeno in Occidente. Oggi, abbiamo metodi più raffinati e sicuri”. A parlare è Rino Rappuoli, fuoriclasse della scienza dei vaccini, 68 anni, toscano di Radicofani, la rocca di Ghino di Tacco, padre di rimedi contro influenza, meningite, pertosse, polmonite e direttore scientifico della ricerca sui vaccini alla multinazionale GlaxoSmithKline (Gsk Vaccines).
Come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, Rappuoli è ottimista. “Penso che arriveremo a una o più formule efficaci nei tempi previsti. Entro il 2021”. E questo perché il coronavirus che ha messo in ginocchio ospedali e sistemi sanitari, nelle mani degli scienziati di laboratorio sembra improvvisamente docile. Fa quello che deve, insomma. “Si comporta bene. Produce una buona risposta immunitaria. E, al momento, non sembra presentare rischi per la salute”, sintetizza Rappuoli.
Resta dunque aperta la strada alternativa alla somministrazione di un virus intero depotenziato: isolare un singolo frammento del coronavirus, iniettarlo nell’organismo e provocare la risposta del sistema immunitario. Una risposta che, possibilmente, duri a lungo nel tempo. In questo caso, la sfida cruciale è quale frammento del virus battezzare. Deve trovarsi sulla superficie del virus per poter essere riconosciuto dalle sentinelle del nostro organismo. Ma non deve mutare troppo, imparando a eludere le nostre difese col tempo.
Per Sars-Cov-2, tutte le indicazioni puntano in questo momento in una sola direzione: il frammento va cercato nella corona del virus. Perché le sue punte (o “spike”) non catturano solo l’attenzione dei nostri occhi al microscopio, ma anche a quella del nostro sistema immunitario. Che è appunto capace di prendere il virus “per la corona” e neutralizzarne le punte, che sono anche uncino e porta d’ingresso del microrganismo nelle cellule del nostro corpo.
Vaccino a la carte
O delle tre tecniche di produzioneSe la strada di iniettare un “frammento di virus” è quella che si annuncia come la più promettente o comunque come la più battuta, mettere a punto un vaccino, in una parola, vuol dire far incontrare il sistema immunitario di un essere umano con la “spike” di un coronavirus. E qui le tecnologie seguono percorsi creativi. O, almeno, questo è quello che oggi ci dicono le 110 formule diverse che altrettanti gruppi di ricerca stanno testando nel mondo.
Tre le strade: 1) Si può iniettare nel corpo la proteina spike: 2) Si possono iniettare le istruzioni per ordinare alle nostre cellule di produrre la spike (queste istruzioni sono contenute in un frammento di genoma: alcuni laboratori usano Dna, altri Rna): 3) Si possono prendere queste istruzioni e impacchettarle in un altro virus (non nocivo) affidando a lui il compito di diffondersi nell’organismo, distribuendo a più cellule possibile l’ordine di produrre la spike. E’ il metodo battezzato del “cavallo di Troia”.
Con ordine, dunque.Inietta la spike
O della tecnica “Avanti con giudizio”Iniettare la spike. Come detto, è oggi la strada più seguita. Sono 35 nel mondo i gruppi al lavoro con questo metodo. E, tra di loro, coloro che si vorrebbero più avanti degli altri. Tra cui, la francese Sanofi, in partnership con la Gsk del nostro Rappuoli, che però non ha ancora iniziato i test sugli esseri umani.
Rappuoli spiega i vantaggi del metodo: “Inoculare la proteina da sola può non essere sufficiente. Occorre combinarla con sostanze chimiche dette adiuvanti, che offrono uno stimolo aggiuntivo al sistema immunitario. Sono utili soprattutto negli anziani, che in genere hanno una risposta più debole”. Gsk – che ha uno dei suoi stabilimenti a Siena – ha una gamma di adiuvanti utilizzati ormai da anni. Sono stati somministrati già a milioni di persone e per loro non servono ulteriori test. Se fosse necessario arrivare a miliardi di dosi da produrre, gli adiuvanti potrebbero iniziare a scarseggiare.
Ma al momento si ottimizzano le risorse: “Sanofi – dice ancora Rappuoli – ha impianti di produzione disponibili per la produzione del vaccino contro il Covid, mentre Gsk ha dichiarato di contribuire con un miliardo di dosi di adiuvanti nel 2021”. Anche così si celebrano i matrimoni fra le aziende di Big Pharma ai tempi della pandemia. Ma non si può dire che i due giganti farmaceutici abbiano fatto le cose di fretta.
Il loro candidato vaccino è l’unico non ancora iniettato su un essere umano per verificarne gli effetti. “La fase di produzione e purificazione della spike è lunga”, spiega Rappuoli. “E noi abbiamo bisogno ancora di un paio di mesi per i trial, con l’obiettivo di essere pronti a metà del 2021. Poi, una volta terminata, la fabbricazione su larga scala non pone grandi problemi”. Non fosse altro perché i vaccini per l’influenza, fra gli altri, vengono prodotti proprio con questa tecnica. La capacità produttiva mondiale è ben rodata: 4-5 miliardi di dosi all’anno.
Produci la spike
O della tecnica del “Tutto subito”Se il vaccino a base di spike è un diesel, quelli che usano Dna o Rna sono campioni di scatto. La sequenza genetica del coronavirus è stata resa pubblica dai cinesi a inizio gennaio. Una piccola sezione di questo genoma contiene le istruzioni per creare la spike. Riprodurla in laboratorio è un lavoro di routine. “Una settimana può bastare”, dice Rappuoli. Non a caso, Moderna, la biotech statunitense che corre su questa pista, è stata la prima ad arruolare i volontari per i test sull’uomo, il 26 marzo.
“Ha già pubblicato i primi dati – spiega lo scienziato senese – anche se solo con una press release dell’azienda, senza un articolo scientifico”. Risultati che, all’apparenza, sono buoni. “Gli otto volontari hanno sviluppato anticorpi pari a quelli di una persona guarita dal Covid. Ma una persona guarita ha una quantità di anticorpi estremamente variabile, che può andare da 10 a 10 mila” spiega Rappuoli. “Quale valore intendano loro esattamente non lo sappiamo”.
Ovviamente, Moderna (come gli altri 20 laboratori al lavoro su Dna o Rna della spike) potrebbe poi trovarsi senza fiato, quando occorrerà produrre centinaia di milioni o miliardi di dosi di vaccino. “Già, questo tipo di vaccini rappresenta senz’altro il futuro”, è convinto Rappuoli. “Ma per il presente non abbiamo garanzie. Nessuno ne ha mai fatto uno prima. Né abbiamo impianti per produrne quantità enormi”.
Il cavallo di Troia
O della tecnica “Aggira l’ostacolo”La strada intermedia, fra quella rapida e pionieristica di Moderna e quella conservativa e consolidata di Sanofi e Gsk, è appunto rappresentata dal “cavallo di Troia”, ovvero dal vettore virale. Questo sentiero è stato imboccato da quasi trenta concorrenti, fra cui il campione cinese CanSino e quello americano Johnson&Johnson, che ha già annunciato una capacità produttiva da un miliardo di dosi. In questo caso, il tempo necessario a mettere a punto un prototipo è di tre settimane. E un vaccino sviluppato con questo metodo esiste già: contro Ebola, approvato lo scorso novembre.
Per la pandemia, abbiamo già i dati di CanSino pubblicati su una rivista scientifica. “Ci dicono – ci spiega Rappuoli – che il metodo funziona abbastanza bene. Stimola il sistema immunitario, ma con una quantità di anticorpi non altissima. Nella scala di prima, che va da 10 a 10 mila, arriviamo a 32. Meglio di niente, ma non lo definire soddisfacente”. Né produrre un vettore virale è banale, dal punto di vista tecnico. Se le aziende riusciranno a fabbricare abbastanza vaccini per difendere dal coronavirus il mondo intero è insomma ancora una domanda aperta.
I bookmaker tuttavia hanno iniziato a scommettere. E la scelta nella gara dei “cavalli di Troia”, resta lo Jenner Institute di Oxford, che per la produzione ha stretto un accordo con la connazionale AstraZeneca. Qui il governo americano ha puntato forte: 1,2 miliardi di dollari e un impianto che si sta già mettendo in moto. E che perfetto non pare essere neanche lui.
Dai primi test sui macachi, si osserva che la malattia da coronavirus resta confinata alle vie aeree superiori. Si limita cioè a un raffreddore, senza degenerare in polmonite. Ma il virus in gola resta, i contagi non vengono bloccati, e questo vuol dire che una persona, sia pur vaccinata, con i suoi starnuti, resterà contagiosa e contagiata e dunque potrà continuare a contribuire alla circolazione di Sars-Cov-2.
Mettiamo un primo punto. Non banale, a ben vedere.
Otterremo un vaccino. Ragionevolmente entro la prima metà del 2021. Ma alla domanda se sarà davvero efficace, la risposta è “ni”. Raggiungeremo probabilmente un’immunizzazione che ci protegge dai sintomi più gravi, ma senza che questo consenta di bloccare la circolazione del virus. Un po’ come avviene per l’influenza stagionale. Fino a quando, lentamente, il nostro sistema immunitario non smetterà di essere naif. E ricorderemo con uno starnuto l’anno in cui il coronavirus ci mise di fronte alla morte.
E che ora cominci il nostro viaggio. E che cominci nel nostro backyard. In quel di Castel Romano, periferia inurbata a 30 chilometri a sud di Roma. La casa di Reithera.……
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