Istat. 816mila italiani all’estero. Calano del 17% gli ingressi degli immigrati. Dei 186mila italiani che si sono trasferiti all’estero, 3 su 4 sono istruiti. Breve racconto degli ultimi dieci anni a partire da quello che ascoltavamo nell’assemblea dell'”Onda”, il movimento studentesco contro la riforma Gelmini della scuola e dell’università. Un ruggito, e poi la vita continua altrove. Non è solo un processo economico, è una condizione
Roberto Ciccarelli
Non è la prima volta, di certo non sarà l’ultima. L’Istat ha confermato: non c’è mai stata l’«invasione», ora meno che mai. Gli immigrati calano in Italia (-17% l’anno scorso quelli provenienti dal continente africano), aumentano (+1,9%) gli italiani che si trasferiscono all’estero. Nel 2018, 117mila, 816mila nell’ultimo decennio, quello della crisi iniziata nel 2008. Al di là del dato, ormai consolidato in questo e in altri rapporti negli ultimi mesi, ricordiamo una percezione diffusa al tempo del movimento studentesco che si autodefinì «L’Onda» proprio in quell’anno contro la riforma di scuola e università chiamata «Gelmini». Lo stesso che si espresse, in altre forme, due anni dopo nei giorni di approvazione della contestatissima legge che ha cambiato il senso e il funzionamento dell’università italiana. Era il 14 dicembre 2010, piazza del Popolo a Roma. Fu un ruggito. Era la furia, prima della «fuga». In molti, lo ricordiamo, allora ripetevano nelle assemblee: questa è l’ultima occasione. Per bloccare un processo di riforma. Per liberarsi dal deserto che avanzava. Ultima forma di resistenza alla precarietà. Per trovarne un’altra, forse, altrove. Per cambiare, di sicuro.
I dati, oggi, confermano. Più che la «fuga», questa è una condizione. «La ripresa delle emigrazioni è da attribuire in parte alle difficoltà del nostro mercato del lavoro – scrive l’Istat – soprattutto per i giovani e le donne». I vari tentativi di adottare programmi di defiscalizzazione per favorire il rientro delle figure professionali più qualificate, si sono rivelate »del tutto sufficienti». E questo a dispetto dell’uso del «capitale umano» per spiegare un processo più ampio, anche esistenziale e non solo economico da «brain gain e drain».
Parliamo di un esercito fatto soprattutto di giovani, età media 30 anni, 2 su 3 hanno tra i 20 e i 49 anni. Quasi 3 su 4 hanno un livello di istruzione medio-alto. In cifre: circa 182mila il numero dei laureati in 10 anni. Molto più grande è il numero complessivo: 816 mila, appunto. La destinazione preferita è stata il Regno Unito (21 mila). Si vedrà, con il Brexit alle porta se cambierà. Seguono Germania (18 mila), Francia (circa 14 mila), Svizzera (quasi 10 mila) e Spagna (7 mila). E poi Brasile, Stati Uniti, Australia e Canada, nel complesso: 18 mila. C’è una sorpresa: La regione in assoluto con più partenze è la Lombardia. Ma si parte anche da lì: solo l’anno scorso oltre 16mila laureati, oltre la metà (8500) provenivano da Sicilia e Campania. Si emigra principalmente dalle prime quattro città metropolitane: Roma (8 mila), Milano (6,5 mila), Torino (4 mila) e Napoli (3,5 mila).
Il fenomeno è proporzionato alle iscrizioni anagrafiche dall’estero, cioè le immigrazioni. Sono state circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all’anno precedente (-3,2%) dopo i costanti incrementi registrati tra 2014 e 2017. Più di 5 su sei riguardano cittadini stranieri (286 mila, -5,2%). Diminuiscono gli arrivi da Nigeria (18 mila, -24%), Senegal (9 mila, -20 %), Gambia (6 mila, -30%), Costa d’Avorio (5 mila, -27%) e Ghana (5 mila, -25%) rispetto al 2017. La Lombardia è la meta di un immigrato su cinque. In fondo, anche questo è un altro aspetto della crisi italiana.
Sorgente: il manifesto
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