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Il Parlamento si nasconde dietro alla formula “Non chiedere, non dire”. Fino ai prossimi caduti in guerre che non esistono ufficialmente

“DON’T ask, don’t tell” è la formula magica con cui la sfera militare statunitense gestisce le missioni più imbarazzanti. E “non chiedere, non dire” è anche la pratica seguita in Italia da governo, Parlamento e alti comandi di fronte alle operazioni delle forze speciali. Difficile stabilire dove finisca la ragione di Stato e cominci l’ipocrisia istituzionale, ma nessuno ha mai voluto fare luce sulla realtà di quello che i nostri incursori compiono all’estero. Di sicuro combattono: uccidono, catturano nemici, subiscono perdite. Lo fanno da 14 anni.

In questo lungo periodo tutti i partiti si sono alternati al potere, senza premurarsi di chiarire quanto accadeva. Se in passato si potevano chiamare in causa gli obblighi verso la Nato e i relativi patti segreti, pure questo alibi ormai ha perso valore. Resta solo il buco nero nella nostra democrazia.

Anzitutto bisogna ricordare che i commandos non vanno a rischiare la vita per iniziativa personale: agiscono per ordine dei governi e nel limite, spesso spinto all’estremo, del mandato stabilito dal Parlamento. Le indagini delle procure militari non hanno mai sanzionato il loro comportamento. Eppure i vertici delle forze armate e i ministri non hanno mai reso nota la natura di queste azioni – “don’t tell” appunto – mentre nessun movimento politico si è mai mobilitato per saperne di più, osservando la prassi del “don’t ask”. Alle Camere le interrogazioni si contano sulla punta delle dita e nelle votazioni annuali sulle missioni internazionali la questione non viene mai sollevata.

Tutto comincia alla fine del 2005, quando dall’Afghanistan trapelano indiscrezioni sull’operazione Sarissa, il nome della lancia delle falangi macedoni, pubblicate da L’Espresso. A condurla è la Task Force 45, un reparto composto dal meglio delle forze speciali. Primo problema: il reparto non dipende dalla gerarchia italiana ma direttamente dal comando Nato, dove sono presenti ufficiali italiani, che non ha bisogno del permesso di Roma per mandare all’assalto questi incursori di Esercito, Marina e Carabinieri.

Secondo problema: contrariamente alla retorica dominante delle “spedizioni di pace”, la Task Force 45 fa la guerra. Va alla caccia dei capi talebani e qaedisti, individua e “neutralizza” i laboratori dove si confezionano le micidiali bombe artigianali, elimina e cattura i nemici. Anche se nei rapporti ufficiali non c’è mai traccia di vittime né di prigionieri, che non si sa se vengano consegnati alle autorità di Kabul o a quelle Usa. Non è neppure chiaro se il ministro della Difesa Arturo Parisi fosse pienamente informato di questa entità guerriera.

I documenti statunitensi svelati da Wikileaks, oltre a fornire dettagli sulle attività belliche top secret, spiegano come davanti alle insistenze della Casa Bianca su un maggiore impegno in Afghanistan, il premier Prodi e il ministro degli Esteri D’Alema avrebbero promesso di mantenere immutato il numero dei militari, aumentando però la quota di combattenti. La Task Force 45, appunto: una soluzione rapida e invisibile.

All’epoca, soltanto Rifondazione ha presentato interrogazioni, senza particolare insistenza. Poi quando a Palazzo Chigi è tornato Berlusconi la spedizione afghana viene moltiplicata, quasi 5000 uomini, e lanciata in vere offensive. Solo l’uccisione di un ufficiale della Task Force 45 ha risvegliato l’opposizione, con alcuni deputati Pd pronti flebilmente a chiedere ragione di una squadra d’assalto creata dai loro compagni di partito.

L’ambiguità è proseguita fino al 2016, quando Matteo Renzi ha cambiato le regole: le forze speciali potevano agire agli ordini di Palazzo Chigi, equiparate così agli 007 con riservatezza e immunità totali. Un modo di assumersi la responsabilità politica delle azioni, che però le rendeva formalmente segrete e rivoluzionava le tradizioni in materia. Questa copertura istituzionale, usata in Libia contro l’Isis, non riguarda la Task Force 44, spuntata dal nulla in Iraq per debellare lo Stato Islamico.

Ufficialmente, il mandato è di mentoring: consigliare le truppe locali e se necessario accompagnarle in battaglia. Un altro escamotage sperimentato in Afghanistan e in Somalia. M5S ha contestato l’attività irachena, pur non facendone una campagna come per l’F-35. Poi la ministra Trenta è andata a Bagdad a incontrare gli uomini della Task Force 44 e ieri Di Maio ha giustamente tributato solidarietà ai feriti, definendoli “impegnati nella formazione delle forze irachene”. Il solito rituale farisaico, per tutelare il silenzio. Fino ai prossimi caduti, sacrificati in guerre che non esistono. Ma da cui dipende anche la nostra sicurezza.

Sorgente: Attentato in Iraq, il silenzio del governo sulle missioni fantasma | Rep

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