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L’annuncio del presidente Usa ha il doppio intento di distogliere l’attenzione dagli scandali interni e rispolverare l’isolazionismo come carta per vincere le Presidenziali 2020. Il rischio, però, è quello di perdere consensi all’interno del suo stesso partito, con una procedura di impeachment già avviata

È ribellione aperta nel Partito Repubblicano contro la decisione di Donald Trump di ritirare le truppe Usa dal nord-est della Siria. Nelle ultime ore alcuni dei membri più influenti del Grand Old Party hanno espresso tutta la loro contrarietà, destinata a prendere forma in una mozione degli stessi Repubblicani del Senato contro il ritiro. Lo scontro rischia di indebolire il presidente, sottraendogli l’appoggio del suo partito in uno dei momenti per lui più cruciali, quello della richiesta di impeachment avanzata dai democratici.

“Un ritiro precipitoso delle forze Usa dalla Siria sarebbe ad esclusivo vantaggio della Russia, dell’Iran e del regime di Assad”, ha spiegato il leader del Senato Mitch McConnell. Per Lindsey Graham, l’abbandono dei curdi dell’area sarebbe “un disastro in divenire” e “una macchia all’onore dell’America”. Graham annuncia l’introduzione di una mozione al Senato che, oltre a bocciare il ritiro statunitense, preveda delle sanzioni molto dure nei confronti della Turchia, nel caso questa decida di invadere la Siria. “Fino alla sospensione di Ankara dallo Nato”, dice Graham. Critici della decisione di Trump anche il senatore della Florida, Marco Rubio, e Nikki Haley, ex ambasciatrice Usa all’Onu, che scrive: “I curdi sono stati fondamentali nella nostra guerra contro l’Isis in Siria. Lasciarli morire ora è un grande errore”.

Forse Trump non immaginava una levata di scudi così radicale da parte del mondo conservatore americano, tanto che nelle ultime ore lo stesso presidente ha mostrato un parziale ripensamento, arrivando anche a minacciare la Turchia di “distruzione economica” nel caso di guerra ai curdi. La ricaduta per il presidente può del resto essere particolarmente pesante. Sotto attacco dei democratici per la questione ucraina, con un procedimento di impeachment in corso, Trump non può fare a meno dell’aiuto repubblicano. Non è sfuggito che, tra le voci più critiche nei suoi confronti, ci siano ora quelle dei suoi sostenitori più convinti. McConnell ha recentemente pubblicato su Facebook un video in cui afferma di voler fermare quanto prima la procedura di impeachment. Lindsey Graham, che spesso si ritrova a giocare a golf con Trump, ha passato le ultime settimane a girare da una Tv all’altra per sollevare il presidente da ogni responsabilità. Andare allo scontro sulla Siria con i suoi alleati più fidati non è quindi qualcosa che Trump può permettersi. E questo spiega la sua parziale marcia indietro.

Si sa che il presidente Usa ha deciso di annunciare il ritiro delle truppe dalla Siria – una scelta su cui aveva già insistito mesi fa e che aveva condotto alle dimissioni immediate dell’allora capo del Pentagono Jim Mattis – dopo una conversazione telefonica con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. La decisione è stata presa, dicono fonti della Casa Bianca, senza consultare i generali e la diplomazia Usa, che quindi ancora una volta è stata presa in contropiede da una scelta apparentemente estemporanea della Casa Bianca. Nell’annunciare il ritiro, Trump cita la necessità di “tornare a casa” e che “prima o poi, doveva esserci un finale di partita”. Più volte, nel passato, Trump ha lamentato che l’aspetto “più difficile e devastante” della sua attività di presidente è dover scrivere le lettere che annunciano ai familiari la morte dei soldati di stanza all’estero.

Ci si chiede comunque cosa possa aver guidato quest’ultima mossa di Trump. Da un lato esiste sicuramente un problema di rapporti con la Turchia. L’acquisto da parte dei turchi del sistema missilistico S-400 dai russi, lo scorso luglio, ha irritato fortemente Washington, che teme il riavvicinamento tra Ankara e Mosca. Il via libera all’attacco turco in Siria – uno dei più fedeli alleati della Russia – potrebbe essere un modo per far deragliare le prove di alleanza tra Erdoğan e Putin. C’è poi un tema che riguarda più da vicino la situazione politica interna degli Stati Uniti. Trump si è sempre dimostrato molto attento a distogliere l’attenzione mediatica da ciò che può costituire un grave imbarazzo, o una minaccia, ai suoi interessi.

In questo caso l’imbarazzo, e la minaccia, sono ovviamente le mosse dei democratici per metterlo sotto accusa (e la recente sentenza di un tribunale che ordina al presidente di consegnare al procuratore distrettuale di New York le dichiarazioni dei redditi degli ultimi otto anni). Far esplodere la “grana” siriana può essere un modo per far dimenticare i problemi interni di Trump, che peraltro si ingigantiscono con il passare dei giorni. Sono due ora i whistleblowers, le talpe dei servizi che lo accusano per il contenuto della telefonata con il presidente ucraino Zelensky. Altri rappresentanti dell’intelligence starebbero valutando di venire allo scoperto. Si tratterebbe, appunto, di una minaccia seria per Trump, ciò che potrebbe dare più forza a una richiesta di impeachment che per il momento resta soprattutto un desiderio dei Democratici. Spostare l’attenzione sul palcoscenico internazionale, sulla Siria in particolare, dà quindi un certo respiro alla Casa Bianca sempre più accerchiata.

C’è infine un’altra ragione interna, ma di più lungo periodo, che può spiegare la decisione di Trump. L’allora candidato repubblicano ha vinto le presidenziali 2016 con un programma in cui l’America First, la scelta di privilegiare gli interessi americani, la volontà di non essere più il guardiano del mondo, avevano una parte importante. Nel momento in cui si prepara per la nuova battaglia presidenziale, Trump sa molto bene che i temi dell’isolazionismo continuano a essere molto cari ai suoi sostenitori più convinti. Questa chiave interpretativa è del resto evidente nelle parole pronunciate proprio da Trump in queste ore. “Ho vinto la guerra contro l’Isis”, ha dichiarato, aggiungendo che ora toccherà ad altri prendersi in carico le migliaia di prigionieri dello Stato Islamico che nessuno, anzitutto gli europei, sembra volere – e che Erdoğan ha promesso invece di gestire. Poco importa quindi a Trump che, con il ritiro, gli Stati Uniti tradiscano i curdi, rischiando di far precipitare tutta l’area in una nuova guerra. In vista delle Presidenziali 2020, ciò che diventa primario è mostrare che, in Siria come in Afghanistan, questa amministrazione ha vinto e portato a casa le truppe Usa.

Sorgente: Siria, la doppia battaglia di Donald Trump: annunciare ritiro in nome dell'”America First” o rimanere per non inimicarsi i Repubblicani – Il Fatto Quotidiano

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