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Comunque vada non sarà un lieto fine quello che attende la nave Sea Watch 3 nel porto di Lampedusa e, soprattutto per i suoi 42 naufraghi tenuti colpevolmente in “ostaggio”. Ma al di là del fatto di cronaca sarebbe bene che alcuni degli equivoci in atto venissero alla luce, perché stanno creando danni al tessuto democratico del Paese.

Ormai infatti sembra rituale, persino scontato, parlare di questa politica di contrasto all’immigrazione come di un “braccio di ferro” ingaggiato dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nei confronti dei “trafficanti di esseri umani”, peraltro individuati “ad arte” nelle Ong, trascurando il fatto che altri migranti continuano a sbarcare indisturbati da piccole imbarcazioni ed altri ancora giungono ogni giorno via terra seguendo la rotta balcanica.

Questo nonostante le linee guida dell’azione del Viminale restino in pratica quelle del predecessore di Salvini, ovvero Marco Minniti. Di sicuro però è cambiata la percezione della gente sul fenomeno, che continua a sembrare “emergenziale” anche se i numeri dicono il contrario.

Di certo, il tipo di comunicazione “brutale” praticata dal nostro ministro ha avuto l’effetto di “spostare in avanti” la linea di tolleranza dei cittadini, portandola verso concetti di inumanità che non si possono ritenere superati. Anche perché possono finire per tradursi in norme, vedi il decreto-bis che prevede pene severissime per chi supera il “blocco”, non a torto sospettate di incostituzionalità.

Ancor prima della nostra Carta, sono però le norme internazionali, scritte e consuetudinarie, a essere trasgredite dalla linea politico-mediatica di Salvini. L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere dei singoli come degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare.

Non sono consentite deroghe al principio di non respingimento in Paesi non sicuri affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra: 

“Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.

Tale prescrizione viene ribadita nel rapporto “Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees”, elaborato nel 2006 dall’Imo e dall’Unhcr e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di “tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’Unchr ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione”.

Va inoltre chiarito che, da un punto di vista giuridico, nel caso della Sea Watch, neppure si può parlare di “immigrati irregolari”, bensì di semplici “naufraghi”, essendo stati salvati in mare ed essendo la loro vita ancora minacciata. La Convenzione Solas del 1974 e la Convenzione Sar del 1979 impongono un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro.

Per la natura stessa dell’obbligo di tutelare la vita umana in mare, il mancato adempimento da parte di uno Stato non costituisce adeguato fondamento per il rifiuto di ottemperare opposto da un altro Stato.

In definitiva, ancor prima di queste norme, basterebbe riferirsi all’imprescindibile diritto degli esseri umani  a migrare in cerca di condizioni migliori di vita o, come in molti di questi casi, di semplice sopravvivenza. Oggigiorno purtroppo persino questo concetto sembra dimenticato o bollato come “sovversivo”.

L’Unione europea fa larghissimo uso nei propri documenti in materia di migrazione di nobili parole quali “responsabilità” e “solidarietà”: eppure, al di là dei proclami, gli organismi europei si mostrano abbastanza “freddi” rispetto alle sollecitazioni che provengono dall’Italia, particolarmente penalizzata dal Regolamento di Dublino III.

Il Regolamento sul “superamento del principio del porto di primo approdo ed una redistribuzione automatica dei richiedenti asilo” s’è impantanato al Consiglio UE. Sarebbe senz’altro opportuno che riuscisse a sbloccarsi in questa legislatura.

Nessuna istituzione europea sembra però al momento volersi prendere la responsabilità di intervenire, partendo magari proprio dai principi di “responsabilità” e “solidarietà”, per imporre una strategia che tuteli anzitutto i diritti inviolabili dell’uomo. Proprio quelli che l’articolo due della nostra Costituzione riconosce e garantisce.

Come Ponzio Pilato, le istituzioni europee si mostrano sfuggenti e dimenticano i propri principi-cardine. Ed è triste vedere l’isolamento cui ci ha condotto il governo italiano e in particolare le scelte del ministro Salvini che, come ha ricordato il segretario Zingaretti, neppure si preoccupa di partecipare ai vertici europei sul tema.

Ciò che manca perciò è una strategia adeguata a livello europeo che si faccia carico di dettare programmi d’azione e interventi risolutivi. Se il fenomeno migratorio è epocale, sbaglia chi crede che lo si possa risolvere con sparate minacciose, estemporanee e intollerabili, quali la chiusura dei porti, lasciando sperare che una soluzione possa essere quella di trincerarsi all’interno delle proprie frontiere.

Non ci si può più nascondere dietro un dito: soltanto un’Europa che rinunci all’egoismo nazionale, alle ragioni d’interesse, ai miopi nazionalismi, potrebbe avere la forza economica e sociale di arginare con politiche efficaci l’onda lunga della migrazione con azioni mirate e coordinate nei Paesi africani in guerra, aprendo anche nuovi corridoi umanitari.

È perciò all’Europa che noi come cittadini, e come europarlamentari del Pd, dobbiamo chiedere con forza di osare di più: bisogna cambiare in fretta e pretendere che il dialogo si allarghi fino a spingere e promuovere politiche comuni. Le sole in grado di contenere e organizzare sul serio i flussi migratori cui assisteremo nei prossimi decenni.

Sorgente: Le bravate di Salvini, un alibi per l’Europa | L’HuffPost

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