0 13 minuti 5 anni

Di LUCA NIVARRA.

1. Alcune sere fa (24 marzo 2019) ho partecipato ad un incontro, svoltosi a Palermo in un circolo ARCI con Marco Assennato che presentava Gilets Jaunes, il libro a più mani edito da manifestolibri. Poi ho anche letto il libro: e l’una e l’altra cosa (l’incontro e la lettura) mi hanno dato modo di riflettere più da vicino su un fenomeno che, fin qui, avevo seguito abbastanza distrattamente. Qui ora vorrei proporre alcune rapide considerazioni che sono il frutto di questo, spero non troppo tardivo, risveglio. Proprio per circoscrivere il perimetro del ragionamento, mi concentrerò su due aggettivi che hanno scandito il discorso pubblico sui Gilets e che, non a caso, più volte hanno fatto capolino nella efficace presentazione di Marco: “ambiguo” e “violento”.

2. Cominciamo con “ambiguo”. Il movimento, si dice o, perlomeno, si è detto, è caratterizzato da un elevato grado di ambiguità. Si tratterebbe di un’ambiguità fondamentalmente di tipo ideologico, da intendersi sia in senso soggettivo, posto che il movimento, programmaticamente, si sottrarrebbe ad un inquadramento secondo le tradizionali categorie di “destra” e “sinistra”, sia in senso oggettivo, nel senso che sottoposto ad un esame ab extrinseco, il movimento non si lascerebbe catturare da nessuno degli schemi ordinatori classici. Per quello che io ho capito di questo fenomeno, appreso in via cartacea e neppure osservato da vicino, in effetti sembrerebbe che le cose stiano davvero così. Bisognerebbe chiedersi, però, se “ambiguo” sia la parola giusta per individuare un tratto, se non il tratto saliente, del movimento, ovvero se la asserita “ambiguità” dei Gilets sia un costrutto linguistico in grado di rendere ragione di ciò di cui si parla. Adesso, per chiarire meglio il senso di quello che sto dicendo, proporrò un accostamento che spero non risulti fuori luogo per i lettori di EN. Prendiamo il movimento del “77” e le sue (almeno nell’immaginario storico che ha prodotto) manifestazioni più vistose: la “cacciata” di Lama dalla “Sapienza” e “Bologna”, simbolo stesso del comunismo (PCI) italiano. Ora, in quel contesto, l’uso dell’aggettivo “ambiguo” (al netto delle sue compromissioni valutative e, dunque, a prescindere dal giudizio – politico – di merito), risultava giustificato. In altri termini, se si assume il dibattito pubblico come un gioco linguistico, predicare l’“ambiguità” del movimento del “77” era del tutto coerente con la semantica allora dominante in base alla quale il “conflitto” politico e sociale era agito – poteva essere agito, nel senso che soltanto se agito alle condizioni che sto per enunciare, era lecito parlare di conflitto, altrimenti ci saremmo trovati al cospetto di qualcosa di spurio, di “ambiguo”, appunto – dalle organizzazioni politiche e sociali della classe operaia, ovvero il PCI e la CGIL (che, difatti, non a caso, nei due episodi emblematici richiamati in precedenza, furono i bersagli dell’Autonomia). Uno dei punti di forza o, in ogni caso, uno dei tratti tipici del “mondo di ieri” era ancora prima che la istituzionalizzazione del conflitto, il suo essere riservato a soggetti determinati secondo una logica – l’accostamento non appaia troppo azzardato – tipica delle collecting society (ad es., la SIAE), ossia di quegli enti ai quali la legge riserva il monopolio della negoziazione dei diritti d’autore (ciò che presenta il vantaggio di un enorme risparmio di costi transattivi). Il monopolio del conflitto funziona più o meno allo stesso modo: una volta istaurato il conflitto, la circostanza che esso sia oggetto di una riserva permette a) di limitare immediatamente il “tavolo” ai soli detentori del monopolio (un monopolio simmetrico a quello di cui gode il custode dell’ordine costituito, lo Stato); b) di delegittimare, presentandola come “ambigua” ogni altra insorgenza sociale (del resto, un destino analogo toccò al “68” almeno fino a quando non divenne “69”); c) di assicurare contenuti genuinamente democratici alla democrazia rappresentativa, in pari tempo limitando al massimo i rischi di una sua sovversione.

Il “mondo di oggi”, però, è molto diverso dal “mondo di ieri”. È molto diverso per tante ragioni, una delle quali è che, a seguito dello sfondamento operato su tutti i fronti da quello che convenzionalmente chiamiamo neoliberismo, il conflitto sociale è stato espulso dall’ordine delle cose pensabili, dall’ordine delle cose pronunciabili e dall’ordine delle cose praticabili. Questo ha due conseguenze, strettamente collegate l’una all’altra: a) la prima è la revoca del monopolio, il quale oggi non serve più perché, appunto, è venuta meno la sua stessa ragion d’essere (d’altra parte, che senso avrebbe mantenere in vita la SIAE se qualcuno, dotato di un’enorme forza, decretasse la cancellazione dal mondo delle opere dell’ingegno?). La revoca del monopolio, dal canto suo, si porta dietro la scomparsa del monopolista, il quale sopravvive nelle forme, francamente oscene, direi ripugnanti almeno quanto possono esserlo quelle di un manipolo di “morti viventi”, dei partiti socialiberisti o dei sindacati cooperativi: i quali, privati della loro ragione sociale – l’amministrazione monopolistica del conflitto – menano una vita larvale funzionale solo alla promozione economica dei mediocri “leader” che si avvicendano alla loro guida. B) La seconda, non perfettamente calcolata dagli stati maggiori del capitale e dai loro terminali politici, è che la revoca del monopolio, non coincidendo affatto con l’estinzione del conflitto sociale (era questa la speranza coltivata dai padroni e correlativi manutengoli) apre la strada ad una galleria di insorgenze per loro natura ibride e, appunto, “ambigue”.

Si tratta di un risvolto tipico della rottura del monopolio, tutte le volte in cui si opera su mercati nei quali la strutturale rigidità dell’offerta, rende preferibile la concentrazione in capo ad un unico soggetto della legittimazione a contrattare. L’alternativa è il “fai da te”, della negoziazione dei diritti sull’opera dell’ingegno, come del conflitto, la quale implica un incremento vertiginoso dei costi di transazione e una naturale tendenza degli acquirenti (le grandi major, lo Stato) a screditare le nuove soggettività che si muovono sulla scena, nella speranza di poter acquisire il controllo della risorsa senza più alcuna mediazione (la direttiva “copyright” di recente approvata dal Parlamento europeo si muove proprio in questa direzione). Lo smarrimento di Macron, che invoca la “sindacalizzazione” del movimento e le parole di Berger presidente della CFDT (di cui riferisce Negri a p.101 del suo contributo) sono un chiaro segno dell’effetto “apprendista stregone” che la messa al bando “ontologica” del conflitto unita alla sua (inevitabile) ricomparsa, comporta per i nostri nemici.

Provo a tirare le fila del discorsetto svolto sin qui. È semplice: i movimenti antagonisti sono tutti “ambigui”, ma non perché ci sia qualche fascista di mezzo (o qualche sfasciacarrozze pomposamente rinomato dai media di regime “black block”), ma perché il potere (in modo strumentale) proietta sul “mondo di oggi” le ombre di quel “mondo di ieri” che esso ha fervorosamente contribuito a cancellare. È una trappola nella quale non dobbiamo cadere; nei Gilets non vi è nulla di “ambiguo” per la semplice ragione che “ambigua” è la realtà scaturita dal prevalere del ciclo neoliberista (sfido chiunque a reperire qualcosa di più “ambiguo” delle forme assunte dalla statualità contemporanea). L’”ambiguità è il potentissimo modo di essere (allo stato delle cose non governabile attraverso la mediazione degli apparati ideologici, se non in forme molto rozze) del conflitto ai tempi del neoliberismo: e non è certo un caso che, come la vicenda dei Gilet mostra con chiarezza esemplare, la risposta del potere, al di là di qualche demagogica e opportunistica concessione, sia incentrata sulla violenza della repressione.

3. E così veniamo a “violento”, il compagno di strada di “ambiguo”. Il movimento sarebbe “violento”. Come ovvio, l’effetto repulsivo di “violento” è superiore a quello di “ambiguo”. Infatti, sebbene il potere (formula ellittica con la quale indichiamo tutti gli attori che, a vario titolo, sono interessati alla conservazione dello stato di cose esistenti e che si adoperano al fine di conseguire questo risultato) annoveri la violenza (sicurezza, immigrazione, decoro urbano, esportazione della democrazia, repressione del conflitto) tra le sue risorse fondamentali, è oggi abbastanza diffusa e radicata l’idea che la “violenza” sia appannaggio, per così dire, solo di chi si oppone. In un certo senso si può dire che sia stato sempre così: e, anzi, la presa di distanza del potere dalla violenza tocca il suo apice con la modernità nella quale l’addomesticamento della violenza avviene attraverso la concentrazione della medesima in capo allo stato, cessando, per ciò solo, di essere violenza (si tratta di quello strano, quasi magico, fenomeno, in virtù del quale la manganellata di un celerino è un atto lecito per definizione, o, al massimo, fino a prova contraria, mentre il calcio sferrato da un manifestante è un atto inemendabilmente illecito). Se questo è vero, è altrettanto vero che, almeno in Occidente, l’accettazione dell’idea per cui, se esercitata dallo stato, la violenza cessa di essere tale e si trasforma in un uso legittimo della forza si è sempre accompagnata ad una qualche forma di scambio (la componente consensuale dell’egemonia gramsciana) con i governati: e, anzi, l’allargamento della platea degli attori dello scambio segna il passaggio prima dallo stato liberale allo stato democratico e, poi, allo stato sociale. Ora, da qualche decennio a questa parte noi siamo testimoni (e vittime) di politiche regressive, cioè di politiche che, nella misura in cui mettono in discussione il Welfare, attuano una rottura del patto sociale, la cui conseguenza prima è quella di erodere lo spazio di legittimità della violenza (che, adesso, si manifesta sempre più come violenza tout court e sempre meno come uso legittimo della forza: e non caso, sempre gramscianamente, il pendolo del potere, un po’ per volta, abbandona il campo del consenso per occupare quello della coercizione). Il dibattito sviluppatosi tra i giuristi (in particolare, i costituzionalisti) a proposito del carattere necessariamente “condizionato” dei diritti sociali, per i quali (a differenza dei diritti di libertà e dei diritti politici) an, quantum e quomodo dipenderebbero dalla loro sostenibilità finanziaria è la classica foglia di fico confezionata da una “scienza” intimamente serva quale è la “scienza” giuridica per accreditare la tesi (pesantemente politica) secondo la quale la libertà di impresa e la democrazia del voto ogni cinque anni, sono l’essenza della cosa, al punto tale che implorano di essere esportate con i droni e i cacciabombardieri; mentre sanità, istruzione, abitazione, salario sono puri accidenti che ci saranno negli anni di vacche grasse, ma non certo negli anni di vacche magre (magre sempre e soltanto per i beneficiari di istruzione, abitazione ecc.). Anche qui, il calcolo del capitale si è rivelato fallace: perché i Gilets, più dei movimenti che li hanno preceduti – e questo, per quanto ciò possa apparire paradossale è un segno di maturità (più in senso oggettivo che soggettivo) –attraverso il ricorso alla violenza (non esageriamo, poi, in definitiva qualche vetrina e l’aperitivo da Fouquet’s) svelano il fatto che per i padroni (rappresentati direttamente dal bambolotto che occupa l’Eliseo) impoverire gli ultimi è un comandamento inaggirabile; ma, cosa ancora più importante, la contenuta violenza dei Gilets è solo la cartina di tornasole della spaventosa violenza del capitale che rompe il patto sociale e, per conseguenza, restituisce la parola al bellum omnium contra omnes.

Apologia della violenza? Estetica della violenza o baggianate similari? Per carità. Diamo alla violenza il posto che merita, di puro indice di una rottura, quando chi subisce manda a dire che il patto sociale è infranto, di strumento, quando l’equilibrio delle forze si è rotto e si apre uno spiraglio per spostarlo a nostro favore. Dove stanno i Gilets tra queste due possibilità? Secondo me, più allo stadio della semiotica che non a quello della semantica. È già un grande passo in avanti: messo in luce che tanto l’”ambiguità” quanto la “violenza” sono il terreno ideologico su cui vogliono trascinarci, è bene precisare che “ambigui” e “violenti” sono loro e non noi.

Sorgente: Cosa insegnano i Gilets in due parole | EuroNomade

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