Il papà di Stefano Feniello, ucciso dalla valanga, è stato condannato per aver violato i sigilli: “Sono disgustato, impunito chi si faceva i selfie sul luogo della tragedia”di RITA BARTOLOMEI
Silvi Marina (Teramo), 10 gennaio 2019 – Condannato per aver portato fiori tra le macerie dell’hotel Rigopiano, la tomba di suo figlio, area sotto sequestro. Due mesi di carcere commutati in una multa di 4.550 euro. Inflessibili: ha violato i sigilli, le contestano.
«Sono disgustato. A Pasquetta lì c’era gente che festeggiava, si faceva i selfie, se ne andava con i souvenir. Ci sono foto e video. E un magistrato fa questo a me? Mi si vieta di portare fiori dove hanno ucciso il mio ragazzo. Io non pago, che mi processino. Ha detto bene il mio avvocato Camillo Graziano: è arrivata la prima condanna per la strage. Solo che riguarda il padre di una vittima».
Alessio Feniello è una furia al telefono. Sono i giorni del dolore più acuto, ci avviciniamo al secondo anniversario del 18 gennaio e si fa sentire ancora più forte l’assenza di Stefano, ucciso a 28 anni dalla valanga che ha cancellato il resort e 29 vite. Il ragazzo aveva compiuto gli anni il giorno prima. Era in vacanza con la fidanzata Francesca Bronzi (nella foto con Stefano), tornata a casa praticamente illesa. Cattiveria mostruosa, accanimento, iperburocratismo giudiziario. In Rete la notizia della condanna ha scatenato la rivolta. Oggi l’area delle macerie – sempre sotto sequestro – è stata ripulita. Diventerà un parco della memoria.
Signor Feniello, com’è andata?
«Era maggio, mia moglie voleva portare fiori a Rigopiano, quella è anche la tomba di nostro figlio, è un luogo che ci dà conforto. Il cancello era aperto, siamo entrati. Non abbiamo scavalcato niente, non abbiamo rotto niente. C’erano gli operai al lavoro, hanno chiamato i carabinieri. Siamo stati scortati fino al punto dov’è morto Stefano e riaccompagnati all’uscita. Pensavo fosse finita lì».
Invece no.
«A settembre abbiamo scoperto quel che era successo. Ci hanno comunicato che la posizione di mia moglie Maria era stata archiviata. La mia invece no. Due volte assurdo. Stesso fascicolo, stessa accusa… Non avrei mai immaginato che un magistrato avesse il coraggio di arrivare a questo. Dovrebbe cambiare mestiere. Che pensassero a fare i processi seri!».
Andrà fino in fondo, rischia il carcere.
«Mi hanno ucciso un figlio e dovrei preoccuparmi di questo? Io non ho paura. Chiedo giustizia. E lo ripeto sempre, per farmi tacere mi devono ammazzare. Piuttosto, non vorrei essere diventato troppo scomodo. Ma se mi vogliono intimorire hanno sbagliato persona. Io e mia moglie abbiamo mangiato pane e cipolla per crescere i nostri figli. Al funerale sono arrivati con i pullman da Valva, il mio paese».
Tra poco più di una settimana saranno due anni dalla strage.
«E arriva questo bel regalo… Già stavamo malissimo, i giorni di festa sono stati terribili, atroci. Ridicola, la condanna è ridicola».
Fin dall’inizio ha gridato la sua rabbia. Nel primo elenco di nomi letto davanti al prefetto, il 20 gennaio, Stefano era vivo. Sua moglie è stata rassicurata anche il giorno dopo. Fino alla tragica correzione. Quando siete finiti all’ospedale.
«Abbiamo fatto denuncia per questo e ci siamo opposti alla richiesta di archiviazione. Il magistrato obietta, non si può quantificare il danno subito. Io mi chiedo: perché non ha nominato degli specialisti?».
Stefano era la vostra gioia.
«I nostri due figli non ci hanno mai dato un problema. Il giorno della strage l’ho sentito su WhatsApp verso l’una. Era pronto a partire, aspettava lo spazzaneve. Ma due ore dopo, quando ha chiamato mia moglie, era preoccupato perché il giorno dopo doveva tornare al lavoro. Diceva, forse non riusciamo a scendere, non arriva nessuno a liberarci. Maria l’ha tranquillizzato. Ma non ci ha mai fatto capire di essere spaventato».
Il dolore, da allora.
«Mia moglie prende 50 euro di medicine a settimana per sopravvivere. Qualcuno si è mai preoccupato di sapere se posso pagare? Nessuna istituzione l’ha fatto. Io mi sono rifiutato di incontrare anche Mattarella. Non vado a prendere pacche sulle spalle».
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