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Rana Faqih è la direttrice della sala operativa della Mezzaluna Rossa. Fu lei a parlare con la piccola Hind

Per mestiere, e forse per vocazione, Rana Faqih ascolta al telefono tutto il dolore di Gaza. Di chi non ha più dove andare e maledice Netanyahu. Di chi ha fame, degli smarriti, degli sfollati, delle donne costrette a partorire per strada, dei vecchi rimasti soli in palazzi distrutti. Il dolore fisico dei feriti e il dolore emotivo degli orfani di guerra. Il dolore di una bambina di cinque anni e mezzo che una sera di fine gennaio le chiedeva solo di essere portata via dall’orrore.

 

Sul tesserino appeso alla casacca della Mezzaluna Rossa palestinese c’è scritto che Rana Faqih, 37 anni, è direttrice della Sala operativa. Ma questo è il nome burocratico, la funzione nella macchina dei soccorsi: Rana, per tutti, è la centralinista di Gaza. Per chi è a Ramallah come lei e per chi è nella Striscia, come chi la chiama. «La prima cosa da fare sempre è bloccare il sanguinamento…». Rana lo ripete cinque volte durante l’intervista con Repubblica, e chissà quante volte l’ha detto a chi, lontano, si avvicinava alla morte per emorragia. Rana è la voce che risponde all’uno zero uno, il numero di ogni emergenza palestinese.

 

«Dal 7 ottobre riceviamo in media 40 telefonate quotidiane solo dalla Striscia di Gaza». Moltiplicate per i 222 giorni di guerra, fanno 8.880 chiamate dirottate alla sala operativa della Mezzaluna Rossa, che si trova in un palazzo alto di Al Bireh, periferia di Ramallah. Una gran parte le ha prese Rana. «Mi è capitato di stare alla cornetta anche per venti ore di fila con famiglie che avevano paura e cercavano cibo». La sala è sempre aperta: i monitor con le mappe digitali di Gaza, Khan Yunis e Rafah, i mezzi di soccorso individuati tramite il Gps, gli squilli a ripetizione. «Aiuti un ferito sconosciuto che sta sotto le bombe a sessanta chilometri da qui, mandi un’ambulanza sperando che non venga anch’essa colpita dall’esercito israeliano, il turno termina ma vuoi sapere come è finita, se quella persona ce l’ha fatta o se è morta dissanguata».

Per chi è in linea col dolore il turno non finisce veramente mai. Rana è la voce che dice «ce la farai», «stiamo mandando i soccorritori», «vedrai che la tua famiglia è ancora viva», mentre trattiene le lacrime. È il primo dottore disponibile e l’ultimo confessore. Fa partorire le donne di Gaza in una tenda o nei ruderi triangolando le chiamate con le ostetriche che stanno in Cisgiordania. Le capita di raccogliere le ultime volontà di chi, dopo aver composto l’uno zero uno, si rende conto che non avrà il tempo di contattare la persona più amata.

 

«Siamo addestrati a dare istruzioni mediche ai feriti, la priorità è fermare il sanguinamento. Spieghiamo come usare le stringhe delle scarpe come laccio emostatico, a che altezza dell’arto legarle, diamo indicazioni sulla via da seguire per raggiungere i pochi ospedali ancora in funzione o per sfollare altrove. I soldati israeliani sono appostati, ogni viaggio è un rischio. Ci chiama gente che urla sotto lastre di cemento che una volta erano tetti».

Rana dice che c’è un limite fisico all’ascolto della sofferenza altrui. Non la puoi incamerare tutta, né la puoi nascondere. Neanche se hai seguito tutti i corsi di questo mondo sulla gestione delle chiamate di soccorso, come hanno fatto lei e i colleghi della Sala operativa. Dopo un po’ la sofferenza riappare, esonda e ti ritrovi a fare chilometri a piedi per tornare a casa. Dimenticandoti che eri arrivata in macchina. «Mi è successo la sera di Hind».

 

La sera di Hind. Il 29 gennaio. Cala il silenzio quando si cita Hind Rajab, la bambina di Gaza City rimasta per quasi quattro ore in contatto telefonico con la Mezzaluna mentre era nascosta sotto al sedile posteriore dell’automobile dello zio, unica sopravvissuta tra sei cadaveri di parenti uccisi. «Hind parlava con me, quel giorno sono stata la sua seconda mamma…». Rana precipita di nuovo nel pozzo dell’impotenza, ora ripete pezzi di frasi, i sussurri di Hind, le promesse proferite nell’attesa di un’ambulanza che non ha mai raggiunto la bambina, bombardata a pochi metri dalla macchina. «Perché non vieni a prendermi? Ho paura del buio, ci sono i carri armati. È passato tanto tempo, ti prego vieni. Abiti lontano? No Hind, abito vicina. Adesso vengo e ti salvo io, conta fino a cento, anzi mando qualcuno a prenderti, tu però chiudi gli occhi se vedi qualcosa che ti fa paura, se chiudi gli occhi niente ti può far male, recitiamo il Corano insieme, piccola Hind…».

Rana fissa il muro, ipnotizzata dalla memoria. Piange e neanche se ne accorge. Quella sera accanto a lei c’era una psicologa di nome Nasrine che le dava consigli su come trattare una situazione che non era scritta in nessun manuale di soccorso. Non è servito a molto. «Perché peggio della morte», dice la centralinista di Gaza «c’è solo l’attesa della morte». Rana non ha figli. Quando il telefono di Hind si è ammutolito è tornata a casa. «Di fronte ai miei genitori ero un pezzo di ghiaccio, non provavo più niente». I sussurri di Hind li sente ancora, di notte. Il sanguinamento di quel ricordo non si blocca neanche coi lacci delle scarpe. Il dolore di Gaza non abbandona mai chi, per lavoro, lo deve ascoltare, gestire, smistare.

Sorgente: Gaza, in guerra al telefono: “Ascolto le persone morire provando ad aiutarle” – la Repubblica


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