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Netanyahu: «L’attacco contro Rafah è già stato fissato. Lo faremo presto». E intanto ordina 40 mila tende, per sfollare i palestinesi. Gli Stati Uniti (Matthew Miller, Dipartimento di Stato) rispondono: non ne sappiamo niente. Ma, intanto, mezzo Partito Democratico è ormai in rivolta, con la senatrice Elizabeth Warren che, per la prima volta, parla apertamente di ‘genocidio’ a Gaza.

Il Caos di un regime di potere sull’orlo del tracollo

L’attacco massacro di Rafah usato come simbolo della sfida. 40mila tende come destino simbolo di eterni campi profughi per palestinesi, mentre una parte di Israele ancora si muove sulla scia del sovranismo nazionalista e teocratico ebraico di Netanyahu contro il mondo. E, a questo disastroso bailamme diplomatico, per capire quanto caotica sia la situazione in Medio Oriente, va aggiunto tutto il tormentato confronto su un cessate il fuoco che va e viene.

Ostaggi, un prezzo alto che deve essere pagato

«Siamo pronti a sopportare un prezzo alto, pur di riavere gli ostaggi». In questa presa di posizione del Ministro della Difesa Gallant, in sempre più evidente contraddizione con il premier, c’è la sintesi del momento drammatico, e di palese frustrazione, che sta vivendo il governo israeliano. Sei mesi di guerra e quasi 34 mila palestinesi uccisi, non sono serviti a niente. E per riportare a casa quel che resta degli ostaggi del 7 ottobre, bisognerà scendere a patti con Hamas. Coi terroristi. Con coloro che dovevano essere liquidati in un paio di settimane e che invece sono sempre a Gaza, vivi, e combattivi, a dettare le loro condizioni. Un disastro.

Governo spaccato e rebus sul futuro

Ma il governo di Tel Aviv è sempre più spaccato e quello che succederà domani è un rebus. Per Israele e per Joe Biden, che in questa «operazione di autodifesa», diventata solo feroce rappresaglia, ci ha perso la faccia. E anche tanti elettori. Per questo, l’America ora gioca duro con Netanyahu e, pur ribadendo la sua incrollabile vicinanza allo Stato ebraico, è pronta se necessario, a voltare pagina. Anzia, a strapparla. Ieri ha spiegato tutto, con una chiarezza disarmante, John Kirby, il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale. Biden ha fatto le cose in grande e ha spedito al Cairo, per i colloqui di pace con Hamas, il Direttore della Cia, William Burns. Vuole un risultato positivo a ogni costo e sta stringendo Netanyahu all’angolo, anche se continua a mandargli le armi e i rifornimenti.

«Dovrebbe essere ovvio già dalla quantità di diplomazia che stiamo portando avanti – ha detto Kirby – che prendiamo la cosa molto, molto sul serio. E vogliamo davvero arrivare a una conclusione su un accordo che riguardi gli ostaggi, il più presto possibile».

Sempre e comunque a fianco, ma…

Un’ulteriore valutazione fatta dal funzionario, però, ha fatto riflettere i commentatori. Quasi a bilanciare il tono ammonitorio nei confronti di Tel Aviv, Kirby ha aggiunto che gli Stati Uniti «rimangono sempre e comunque al fianco di Israele», anche per sostenerlo nell’eventualità di una guerra con l’Iran. Kirby, è bene precisarlo, ha parlato di «autodifesa». Secondo alcuni analisti, il riferimento alla minaccia iraniana, può servire a Biden, in questo momento, per parare i colpi della critica sempre più accesa nei suoi confronti, per i massicci e continui trasferimenti di armi verso Israele.

Dove e quando la risposta iraniana

A maggior ragione in un momento in cui, il Ministro degli Esteri degli ayatollah, il solitamente misurato Hossein Amir Abdollahian, ha dichiarato che «i prossimi giorni saranno duri per Israele dopo l’attacco al Consolato iraniano di Damasco». Aggiungendo che gli Stati Uniti sono da considerare complici, «perché hanno dato la loro approvazione». Se il clima è questo, si capisce perché, anche da un punto di vista strategico, per gli americani sia meglio ‘congelare’ il fronte di Gaza. Una crisi di portata gigantesca, nel Golfo Persico e contro un nemico temibile come l’Iran, sarebbe una sfida dura. Per tutti.

Netanyahu sconfitto che non accetta d’esserlo

Certo, raggiungere un accordo rappresenta una vittoria politica per Hamas e una cocente sconfitta per Netanyahu. Perché si avvicinerebbero la fine della guerra e nuove elezioni, che segnerebbero quasi certamente la sua uscita di scena. Intanto, gli americani si preparano. Applicando sempre la loro realpolitik, «non cerco amici, ma solo soci», pensano già al dopo-Netanyahu. Guarda caso, in queste ore si trova a Washington il capo dell’opposizione israeliana, l’ex premier Yair Lapid. Si è visto con il Segretario di Stato, Antony Blinken, e con il Consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. Entrambi, per non urtare suscettibilità, hanno fatto sapere che incontrare leader politici israeliani, quando sono in città, «è una consuetudine».

Basta bombe americana sul popolo palestinese!

La verità è, invece, che tutto l’entourage democratico sta facendo pressioni, su Biden, affinché assuma un atteggiamento più duro nei confronti del governo israeliano. Ieri, alla lunga lista di personalità politiche di primo piano si è aggiunto anche il senatore Tim Kaine, candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel 2016, nel ticket con Hillary Clinton. Il senatore della Virginia, che nel suo partito gode di un grande seguito e di un indiscusso prestigio, ha dichiarato: «La cosa giusta da fare ora è inviare in Israele solo armi difensive. Come i missili antiaerei Iron Dome». Benissimo. Solo che un altro senatore democratico (e altrettanto prestigioso), Chris Van Hollen, ha sollevato un putiferio e chiede: le armi Usa cedute a Tel Aviv, vengono usate nel rispetto del diritto internazionale e non ostacolano gli aiuti umanitari?

C’è una direttiva specifica della Casa Bianca. A quanto pare, per il Dipartimento di Stato «andava tutto bene». Poi qualcuno gli ha detto di rileggersi meglio le carte. E ora ci sarà un «aggiornamento» e per avere una risposta bisognerà aspettare l’8 maggio. Un altro mese di bombe. Sempre americane, sempre le stesse, ma adesso ‘un po’ più difensive’

Sorgente: Guerra a Rafah contro tutti la folle arroganza che isola Israele dal mondo –

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