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Arrivano sopraffatti a Rafah, cercano un materasso in un garage (ANSA)

Sami al Ajrami

“Papà, pensi che noi oggi moriremo?”.

A Khan Yunis, nel sud della Striscia, dopo un’altra notte di bombardamenti, la famiglia di Ibrahim si appresta a sfollare: i due figli stesi su un materasso seguono con apprensione i preparativi degli adulti.

Negli ultimi giorni sono stati costretti a cambiare spesso i rifugi ed i combattimenti sembrano essere sempre più vicini. I genitori cercano di calmarli. “Andrà tutto bene, vedrete”, cercano di rassicurarli e i bambini ostentano un atteggiamento maturo. Ma i loro occhi sono più che eloquenti. Di prima mattina alla periferia di Khan Yunis e della vicina Deir el-Ballah è stata segnalata la presenza dei primi blindati israeliani. L’esercito, che ieri aveva ordinato lo sgombero di alcuni rioni, oggi ha esteso il provvedimento anche al centro città. “Dovete spostarvi verso Rafah”, al confine con l’Egitto, ha fatto sapere in arabo il portavoce militare israeliano Avichay Adraee. Rafah, una città da 200mila abitanti, ha triplicato negli ultimi giorni la popolazione dopo aver accolto centinaia di migliaia di sfollati dal nord della Striscia. A loro dovrebbero aggiungersi quanti stanno lasciando Khan Yunis.

“Da tutta la mattina cerco un posto per sistemare la mia famiglia – prosegue Ibrahim. – Basta avere un tetto, anche una sola stanza, qualche materasso. E se non c’è, che sia allora un garage…”. Alla partenza da Khan Yunis si vedono ancora gli scheletri del Progetto Sheikh Zayed: il rione di 200 palazzine popolari finanziato dal Qatar che ieri l’aviazione israeliana ha colpito a più riprese. La fila esterna degli edifici è sventrata, fumante, annerita. La strada che porta a Rafah, all’estremità meridionale della Striscia, oggi era invasa da un’ondata di persone: chi in automobile e chi invece su carretti trainati da asini. Tutti spinti dall’ansia di riuscire a trovare un tetto, a Rafah. Dall’automobile Ibrahim prosegue i tentativi di trovare un riparo per la sua famiglia: “Finora niente. Continuo a provare”, racconta sconsolato. All’ingresso di Rafah domina il pessimismo. Vicino agli edifici dell’Unrwa, l’ente per i profughi palestinesi, intere famiglie sostano sul marciapiede. Non sanno dove andare ma almeno, dicono, “qui c’è la speranza di avere qualcosa da mangiare”. Un piccolo locale viene messo loro a disposizione. E’ stato necessario sistemare un contenitore sul tetto e riempirlo con secchi d’acqua. I proprietari si sono commossi di fronte alle persone disperare e non hanno chiesto alcun pagamento per l’acqua o per l’asino che l’ha portata. In un’altra parte del loro edificio ci sono due bambini, uno 13 anni con la sorellina di 9. “Sono gli orfani della famiglia Hrazin. Erano in 11, vivevano a Sajaya (Gaza City), ma i familiari – viene spiegato – sono morti tutti in un bombardamento”. La famiglia di Rafah li ha accolti in casa, e qui resteranno per il prossimo futuro. In un angolo della casa si sentono singhiozzi irrefrenabili: sono due anziani che da due mesi sono costretti a passare da un rifugio all’altro e che adesso, stesi su materassi in una abitazione sconosciuta e sovraffollata, non resistono più. Di fronte all’edificio c’è una alta parete di cemento, protetta da reticolati. E’ il confine con l’Egitto. Da una torretta i soldati seguono la situazione con un binocolo. In passato, sotto a questo confine, c’erano centinaia di tunnel di contrabbando di Hamas. L’Egitto li ha distrutti tutti, ricorrendo anche all’acqua del mare. Poi ha creato una ampia zona cuscinetto. “Fate attenzione – avvertono i proprietari della casa. – I militari hanno ordine di sparare a vista su chi si avvicina”. A Khan Yunis i primi blindati israeliani, a Rafah le pattuglie militari egiziane di confine. In mezzo una massa di sfollati palestinesi incapaci ormai di guardare a domani.

Sorgente: ‘Oggi moriremo?’, gli sfollati senza più speranza – Il reportage – Guerra in Medio Oriente – Ansa.it

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