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La bomba alla Banca dell’agricoltura causò 17 morti e 88 feriti. E cambiò per sempre la storia del nostro paese

di Massimo Pisa

Ne hanno dato definizioni diverse, ogni volta necessarie e drammaticamente insufficienti: dal “giorno della perdita dell’innocenza” alla “strage di Stato”, fino al “buco nero”, titolo del recente approfondimento curato da Flavio Tranquillo che in queste sere potete trovare su Sky Tg 24, e che abbraccia l’intera stagione dello stragismo. Tutto comincia quel giorno, il 12 dicembre 1969 di cui oggi commemoriamo il 54° anniversario. Tutto parte da quella tragedia, la strage di piazza Fontana che spezzò 17 vite, ferì e mutilò 88 persone e cambiò la storia della Repubblica per sempre. Tutto ha origine da quella bomba esplosa alle 16.37 di un venerdì, nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’insegna è ancora lì ed è l’unica cosa rimasta uguale. Il resto va di nuovo raccontato, soprattutto per chi non c’era.

Italia 1969

Bisogna tornare a quel mondo in bianco e nero, a quei tempi raccontati dai vostri nonni e che potete ritrovare su YouTube. Alla giovane Repubblica nata dalla Resistenza e già minacciata da nostalgie autoritarie, sull’orlo della guerra civile nel 1960 sotto il governo Tambroni, sull’orlo del golpe quattro anni dopo nei piani del generale De Lorenzo.

Intorno il mondo è diviso in due blocchi, americano e sovietico, quelli della Guerra Fredda. Ci sono le due Germanie – Ovest ed Est – e la Jugoslavia, incombe l’Urss che ha soffocato nel sangue i sogni di libertà e indipendenza di Praga nel 1968, dopo averlo fatto con Budapest 12 anni prima. L’Europa unita è un embrione, la Cina cresce dopo a Lunga marcia di Mao Tse Tung. L’Italia è sotto (pesante) influenza Usa, il più forte partito comunista d’occidente è vissuto come una minaccia perenne.
Il Sessantotto della contestazione studentesca, con le università occupate e spesso sgomberate con la forza, ha fatto lasciato il posto al Sessantanove delle rivendicazioni operaie, dell’Autunno caldo con le fabbriche in tumulto per il rinnovo dei contratti, scuote ulteriormente i fragili equilibri.

Milano esplosiva

A farli vacillare, poi, ci sono le bombe e a Milano, fin dal ’68, ne sono esplose parecchie. Tutte dimostrative e a basso potenziale, nessuna vittima, botti notturni accompagnati da foglietti di rivendicazione con slogan neoanarchici. Davanti a fabbriche e chiese (Duomo e Sant’Ambrogio), a banche e caserme, una piccola scia che inquieta. Scoppiano bombe anche altrove: a Torino e Genova, a Pisa e a Verona, a Padova (dove le rivendicazioni inneggiano a Mao) e a Roma (qui il marchio neofascista è netto).
Il 25 aprile 1969, alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale milanese, ecco i primi feriti e i primi arresti. L’Ufficio Politico della Questura punta su un pugno di anarchici e sospetta che a manovrarli ci sia l’editore Giangiacomo Feltrinelli, maturo animatore dei cortei e finanziatori dei gruppetti. A fine luglio una bomba a orologeria non esplosa viene ritrovata in Tribunale, gemella di quelle abbandonate a Roma e Torino. La notte tra l’8 e il 9 agosto un pugno di piccoli ordigni seminati sui treni che portano i vacanzieri al mare semina il terrore.
Due mesi dopo due grosse bombe vengono lasciate fuori dalla scuola slovena di Trieste e sui binari della stazione di Gorizia: non esplodono, avrebbero fatto una carneficina e sono firmate dai neofascisti. Si torna a Milano, il 19 novembre, e agli scontri che insanguinano il corteo dello sciopero generale. Muore il poliziotto Antonio Annarumma e la colpa ricade sui rossi. Il 7 dicembre rimbalzano dall’Inghilterra voci di un golpe manovrato dalla Grecia e dal suo regime dei colonnelli. L’aria è satura di tensione.

“Un formidabile botto secco”

La frase è dell’edicolante di piazza Fontana, che in quel 12 dicembre 1969 venne investito dall’onda d’urto. La Banca Nazionale dell’Agricoltura, come ogni venerdì dal primo Dopoguerra, restava aperta fino a tardi per ospitare allevatori e coltivatori, i loro affari da piccolo mondo antico. Sotto il tavolo ottagonale al centro del salone qualcuno abbandona una borsa nera in vilpelle. Contiene una cassetta portamonete con dentro la bomba.
Un’altra rimane inesplosa – almeno fino alla scellerata decisione di farla brillare, presa dal procuratore capo Enrico De Peppo – dentro la Banca Commerciale di piazza della Scala (oggi Gallerie d’Italia). Altre due scoppiano sull’Altare della Patria a Roma e fanno qualche ferito, come la quinta nel tunnel sotto la sede capitolina della Bnl.
I morti sono solo a Milano: 13 sul colpo, uno in nottata, il 15° spira il 26 dicembre, si sale a 16 il 2 gennaio. E nel 1983, dopo una vita di sofferenze, si arrenderà ai dolori Vittorio Mocchi. Milano li piange il 15 dicembre, dentro e soprattutto fuori dal Duomo, dando una formidabile dimostrazione di partecipazione popolare e un messaggio: chi vuole piegare la democrazia dovrà passare da lì.

 

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I “mostri” anarchici

La caccia al colpevole e al commando delle cinque bombe è rapidissima. Troppo. Ricalca l’inchiesta milanese sugli anarchici del 25 aprile ma questa volta il bersagli è uno scalcagnato gruppetto romano, il “22 marzo”, frequentato da libertari autentici, un poliziotto infiltrato (“Andrea Poiti”, alias Salvatore Ippolito) un fascista riciclato come Mario Merlino e il suo (ex) camerata Pio D’Auria.

Il personaggio più carismatico è un ballerino milanese 37enne di nome Pietro Valpreda, che alla vigilia della strage è partito per Milano con la sua Fiat Cinquecento scassata e due linee di febbre, convocato a Milano dal magistrato Antonio Amati per rispondere dei suoi slogan truculenti. Chiuso il verbale, il 15 dicembre viene arrestato e portato di nuovo nella capitale. Lì viene accompagnato anche il tassista Cornelio Rolandi, che giura di aver accompagnato sulla sua Fiat 600 l’attentatore. Lo riconosce, in dialetto: “L’è lü”. Poi vacilla: “Se non è lü, chi el ghe no”.

Il giudice, tra le proteste di Valpreda, decide di arrestare lui e i compagni Mario Merlino, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Emilio Bagnoli e Roberto Mander. Al telegiornale delle 20.30, in diretta con il questore romano Giuseppe Parlato, un giovane Bruno Vespa può annunciare: “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage”. Le etichette di “belva” e “mostro” si sprecano.

 

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Il volo di Pinelli

C’erano anarchici trattenuti anche nella Questura milanese, fin dalla sera del 12 dicembre. E tra loro il 41enne ferroviere Giuseppe Pinelli, animatore del circolo Ponte della Ghisolfa, responsabile della Crocenera anarchica, la rete di solidarietà con i compagni detenuti. Invitato ad andare in Questura dal commissario Luigi Calabresi, che lo conosce da tempo, lo segue in motorino. Trascorre in via Fatebenefratelli le successive 72 ore, ben oltre i termini di legge.

La sera del 15 dicembre comincia l’ultimo interrogatorio. Calabresi cerca connessioni con Valpreda e gli attentati, prova a ingannare il ferroviere spiegandogli che il ballerino ha confessato. Il suo capo, Antonino Allegra, minaccia di incastrarlo per le bombe sui treni. Pinelli non ci casca, non ha nulla da ammettere. Poco prima delle 24 Calabresi va nell’ufficio di Allegra – secondo tutti i testimoni meno uno, l’anarchico Lello Valitutti che aspettava il turno del suo interrogatorio – a portare il verbale definitivo.

A mezzanotte Pinelli, guardato a vista da quattro poliziotti e un carabiniere, vola dalla finestra dell’ufficio del commissario e si schianta in cortile, per morire poco dopo. Ai giornalisti accorsi nella notte in via Fatebenefratelli, il questore Marcello Guida spiega che il ferroviere si è suicidato perché si era visto smascherato. E’ un’infamia che le inchieste smentiranno e che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano archivierà nel 2009 con parole definitive. Giuseppe Pinelli, innocente, è un morto di Stato.

I fascisti veneti

La pista d’indagine, nonostante i primi dubbi, è unica ed è anarchica. Ma langue perché i magistrati romani Occorsio e Cudillo – titolari del fascicolo per un cavillo – non trovano altri elementi concreti oltre al riconoscimento del tassista Rolandi. Molta più strada fanno gli accertamenti dei loro colleghi trevigiani Pietro Calogero e Giancarlo Stiz. Partono dalle rivelazioni dell’insegnante di francese Guido Lorenzon, amico del libraio e stampatore Giovanni Ventura.

I discorsi che ha fatto quest’ultimo, sulla strage e sugli attentati precedenti, sono fin troppo espliciti, e si aggiungono a quelli fatti dall’alter ego di Ventura: si chiama Franco Freda, fa il procuratore legale a Padova ed ha velleità da intellettuale neonazista. Ma non sono solo chiacchiere, quelle venete, anche se i giudici romani cui vengono trasmessi i primi atti, li rimandano indietro scettici.

Con pazienza, Calogero e poi Stiz trovano altri testimoni, poi riscontri concreti. Armi, documenti, timer, veline di intelligence. Tracce di un piano che coinvolgerebbe Pino Rauti, il capo di Ordine Nuovo, la formazione più oltranzista dell’estrema destra nostalgica e golpista. Una trama che arriverebbe fino alla bomba di piazza Fontana.

Inchiesta sullo Stato

Nella primavera del 1972 lo scenario cambia colore. Il processo Valpreda, a Roma, si apre e chiude in pochi giorni con un nulla di fatto. Anzi, viene deciso che la competenza territoriale sulla strage è milanese, come negato all’inizio. E sul tavolo del giudice Gerardo D’Ambrosio, che sta già indagando sulla morte di Pinelli – dopo la prima frettolosa archiviazione del collega Amati – per omicidio volontario da parte dei poliziotti che lo interrogavano, confluisce anche il fascicolo trevigiano di Calogero e Stiz.

D’Ambrosio, affiancato dai pm Emilio Alessandrini e Rocco Fiasconaro, è un investigatore metodico e tenace. Pezzo dopo pezzo, in una Milano sulfurea (muore Feltrinelli dilaniato dalla bomba che stava piazzando su un traliccio a Segrate; muore il commissario Calabresi ammazzato sotto casa da un commando di Lotta Continua, la formazione che per due anni gli aveva dato dell’assassino; si moltiplicano le imprese dei fascisti delle Squadre d’Azione Mussolini e delle Brigate Rosse), ricostruisce il puzzle.

Non solo sul gruppo Freda-Ventura, ma sull’agente dei servizi segreti Guido Giannettini, sulle coperture accordate dai suoi superiori, sulle omissioni e i depistaggi dell’intelligence. Ma l’inchiesta viene scippata a Milano in due tempi, per motivi di incompatibilità ambientale e procedurali. Nel 1975 il fascicolo finisce a Catanzaro, a 1300 chilometri di distanza.

I processi

Lontanissimi da quei fatti, non solo geograficamente, il giudice istruttore Gianfranco Migliaccio e il pm Mariano Lombardi lavorarono con scrupolo, completando le inchieste precedenti con l’arresto e l’incriminazione di due ufficiali dei servizi, Gianadelio Maletti e Antonio Labruna, colpevoli di aver fatto espatriare l’imputato Giannettini e il sospettato Marco Pozzan. Il quadro era completo e saldava neofascisti con pezzi dello Stato.

Ma al processo di primo grado – aperto a Catanzaro nel 1977 dopo altre due partenze false, nel ’74 e nel ’75 – andarono alla sbarra anche Valpreda, Merlino e gli anarchici romani, in un’ipotesi di colpevolezza cui ormai non credeva più nessuno. Le udienze durarono due anni e misero in grave imbarazzo i vertici della Repubblica, ministri come Andreotti, Gui, Tanassi e Rumor, alti ufficiali chiamati a rispondere di silenzi e connivenze. Finì con la fuga all’estero di Freda e Ventura appena prima della loro condanna all’ergastolo insieme a quella di Giannettini e a quelle per depistaggio a Maletti e Labruna.

Verdetti ribaltati in buona parte in appello, dove il duo veneto pagò solamente per gli attentati di aprile e agosto 1969. La Cassazione, nel 1987, confermerà per Freda e Ventura condanne a 15 anni e pene minime per le due spie. Assolti Valpreda e gli anarchici, ma con formula dubitativa. Senza colpevole la strage, un grande classico italiano.

 

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Anni Ottanta

Dopo le assoluzioni in Appello del 1981, la magistratura di Catanzaro si rimise in moto. Riprese in considerazione la posizione di Merlino e soprattutto del suo ex capo Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale che da un decennio era latitante in Sudamerica. E le rivelazioni di un pugno di pentiti dell’arcipelago nero, compresi alcuni ex compagni di cella di Freda, accesero i riflettori sul suo camerata Massimiliano Fachini, indicato come ultimo staffettista della bomba in piazza Fontana. E sul misterioso artificiere “zio Otto”, poi identificato in Carlo Digilio.

Quella dei magistrati Domenico Porcelli ed Emilio Ledonne fu un’indagine, oggi semidimenticata, molto ambiziosa. Cercò connessioni con i massoni della Loggia P2 di Licio Gelli, scoperta proprio nel 1981 e pesantemente implicata nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Riprese una misteriosa pista delle prime ore, che voleva dietro alle mani di Delle Chiaie e Merlino la mente del neonazista francese Yves Guillou, che con l’alias “Guerin-Serac” manovrava dal Portogallo una centrale clandestina dell’anticomunismo. E provò a far luce sulla spia padovana Dario Zagolin, la cui auto fu multata l’11 dicembre 1969 a pochi metri da piazza Fontana.

I magistrati di Catanzaro, in tempi ancora di Guerra Fredda, trovarono soltanto porte chiuse dagli apparati dello Stato. A processo finirono Delle Chiaie e Fachini, imputati nel frattempo anche a Bologna. Usciranno assolti da tutte le accuse in entrambi i dibattimenti.

Anni Novanta

A riesumare le speranze di dare un nome e un volto ai carnefici di piazza Fontana e ai loro manovratori fu, all’inizio degli anni Novanta il giudice istruttore Guido Salvini. Raccogliendo verbali su verbali di decine di pentiti neri – compreso “zio Otto” Digilio e il veneziano Martino Siciliano – Salvini risalì alle trame stragiste dei militanti di Ordine Nuovo di Mestre, capeggiati da Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi. E sullo sfondo si agitò lo spettro dell’intelligence americana a coprire i congiurati con il suo mantello.

Il fascicolo sull’eccidio del 12 dicembre 1969 transitò, per gli effetti della riforma del codice, sulle scrivanie dei pm Grazia Pradella e Massimo Meroni. E nel 2000, a più di trent’anni dai fatti di cui erano accusati, si aprì il dibattimento a carico del pentito e reo confesso Digilio, di Maggi, del latitante Zorzi e di Giancarlo Rognoni, storico leader dei neofascisti milanesi con la sua Fenice, accusato di aver fatto da basista agli attentatori.

Le sentenze seguirono lo schema classico. Condanne in primo grado: 30 (con lo sconto per a collaborazione) anni a Digilio che, già malato e coperto dalla prescrizione, non fece ricorso; ed ergastolo a Maggi, Zorzi e Rognoni, puntualmente assolti in appello e Cassazione. Che inciampò, facendo pagare le spese processuali ai familiari delle vittime, ma fissò dei paletti: la responsabilità storica di Ordine Nuovo e quella postuma, e non più giudicabile, di Freda e Ventura. Principi oggi iscritti nella pavimentazione di piazza Fontana come pietre d’inciampo.

Oggi

Saggi, libri, ricostruzioni giornalistiche, documentari tv, fumetti, film, video da tiktoker, canzoni, poesie, relazioni parlamentari della Commissione Stragi, veline desecretate. Piazza Fontana, soprattutto nell’ultimo quindicennio, è stata oggetto di una produzione multimediale amplissima, anche se non sempre documentata. Ricostruzioni spericolate e infondate come quella della doppia bomba anarchica e fascista, altre suggestive che puntano sui neofascisti veronesi e tornano sul ruolo degli americani.

Se esiste una verità storica, ormai approdata fin nelle stanze del Quirinale, troppi pezzi del puzzle mancano ancora e troppi archivi serrano ancora le loro verità nei loro armadi blindati. Studiosi e ricercatori non si arrendono e alle testimonianze dei reduci di quell’epoca si aggiungono tesi di laurea, percorsi scolastici, memoria diffusa.

La commemorazione che si celebra ogni 12 dicembre, con tre cortei diversi – quello istituzionale, quello dei collettivi e il terzo degli anarchici del Ponte della Ghisolfa – testimonia insieme alla doppia lapide per Giuseppe Pinelli in piazza Fontana che quella memoria è ancora divisa. E lo sarà finché non ci sarà verità, tutta la verità, se non giustizia.

Sorgente: La strage di piazza Fontana spiegata a chi non c’era: cosa è successo il 12 dicembre 1969, perché e cosa dicono le carte processuali – la Repubblica

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