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Il prossimo 10 dicembre, in Argentina, comincia la presidenza di Javier Milei.

Chi è Milei? Suo padre era un autista di autobus, sua madre casalinga. Dopo un’infanzia difficile, si laurea in economia, consegue due master e inizia a lavorare in società finanziarie, ma diventa noto per le sue rissose apparizioni in tv. Riesce a farsi eleggere deputato nel 2021 con la lista Libertad avanza, con le sue teorie «anarco-capitaliste» ispirate dal liberista Milton Friedman e da un altro economista americano meno noto, Murray Rothbard. Il 19 novembre scorso ha convinto gli elettori offrendo un drastico ridimensionamento dello Stato «il male assoluto», guidato «da una casta di parassiti».
Ecco il suo programma: cancellazione di 11 ministeri; abolizione della Banca Centrale; vendita delle principali aziende di Stato, come la società petrolifera Ypg o l’istituto di credito Grupo Financiero Galicia; privatizzazione della sanità e della scuola; nessuna misura per contrastare il climate change; via i vincoli al possesso di armi; abolizione della legge sull’aborto; liberalizzazione delle adozioni e del «mercato degli organi umani», visto che «uomini e donne sono proprietari innanzitutto del proprio corpo». Infine la riforma bandiera: sostituzione del peso con il dollaro americano.
Pur lavorando si diventa poveri

Nel ballottaggio, Milei ha conquistato il 55% dei consensi, battendo l’ex ministro dell’economia, il peronista Sergio Massa. Tuttavia potrà contare solo su 39 seggi sui 257 totali della Camera e sette sui 72 del Senato. Sarà, dunque, un presidente senza maggioranza parlamentare. Potrà fare solo alcune cose per decreto, come ridurre il numero dei ministeri, ma per il resto dovrà trattare con i moderati di Insieme per il cambiamento, guidato dall’ex presidente Mauricio Macri e dalla candidata alle elezioni Patricia Bullrich. Certo, il presidente, soprannominato «el loco» (il matto) fin da ragazzo, potrebbe procedere a colpi di referendum. Ma non è detto che riesca a spuntarla su temi sensibili come l’aborto, la vendita di organi, o il climate change

Il Paese sembra incamminato verso il decimo default finanziario della sua storia. Soffocato dalla stagflazione, cioè la diminuzione della ricchezza prodotta (-2,5% la stima per la fine del 2023), combinata con una furiosa inflazione, oggi al 143% e che, secondo le previsioni, potrebbe toccare il 200% alla fine dell’anno. Il tasso di disoccupazione è alto (6,6%), ma non drammatico. Ciò significa che una larga fascia di argentini si impoverisce, pur lavorando. Circa il 40% della popolazione, 18,3 milioni su 45, vive sotto la soglia della povertà, l’equivalente di 750 euro per una coppia con due figli minorenni; il 9,3% degli abitanti non ha neanche i soldi per mangiare. L’altro tema chiave è il dissesto delle finanze statali. Il debito pubblico ammonta a 419 miliardi di dollari, pari all’85% sul prodotto interno lordo, un peso sostenibile se non fosse che oltre la metà è in mani straniere. Vanno conteggiati i 44 miliardi di dollari prestati dal Fondo monetario internazionale e altre decine di miliardi in titoli e obbligazioni sottoscritte dai grandi fondi americani, da BlackRock a Gramercy Funds Management. Il tasso di interesse è arrivato alla strabiliante percentuale del 145%, nel tentativo di raffreddare l’inflazione e attirare altri sottoscrittori per i titoli di Stato. Non sta funzionando. La vittoria di Milei è maturata in questo sfacelo.
Sostituzione del Peso col Dollaro

Per il neopresidente la via d’uscita è in una soluzione shock: buttare via la moneta locale, chiudere la Banca centrale e ricominciare usando solo dollari. Molti economisti, in Argentina e altrove, hanno subito avvertito: attenzione, ciò significa rinunciare alla politica monetaria, appaltandola alla Federal Reserve americana. Per cominciare sarebbe Washington a fissare il tasso di interesse anche per Buenos Aires. Le autorità argentine, inoltre, non potrebbero più manovrare il tasso di cambio con le altre monete: per esempio non sarebbe più possibile svalutare per favorire le esportazioni. Infine perderebbero l’opportunità di stampare altre banconote, immettendo liquidità nel sistema per alimentare la domanda di beni e servizi. Sono tutte obiezioni convincenti per uno Stato con i conti in ordine: valgono anche per l’Argentina di oggi? Le imprese, di fatto, già esportano e importano con altre valute: dollaro, ma anche yuan cinese. La moneta americana è scambiata in nero a un valore 3-4 volte superiore rispetto a quello ufficiale. Se la «dollarizzazione» riuscisse a mettere in sicurezza stipendi e pensioni, a rilanciare i consumi, a riportare un po’ di ordine nei conti pubblici, allora in pochi rimpiangerebbero il peso, la moneta locale.

I precedenti di Panama, Ecuador, Salvador

Ci sono alcuni precedenti: Panama ha adottato il biglietto verde già nel 1904, l’Ecuador nel 2000 ed El Salvador nel 2001. A Panama è andata bene: lo Stato del Canale ha beneficiato di una crescita economica costante, integrandosi nel circuito americano. Le economie delle altre due nazioni, invece, sono rimaste fragili e i loro bilanci pubblici oggi rischiano la bancarotta. L’Ecuador per salvarsi ha addirittura chiesto e ottenuto prestiti dalla Cina. In cambio, nel maggio scorso, ha stretto un accordo di libero scambio con Pechino. Curioso no? Mi affido al dollaro, ma ho bisogno del salvataggio cinese.

Circa il 40% della popolazione, 18,3 milioni su 45, vive sotto la soglia della povertà, (…) il 9,3% degli abitanti non ha neanche i soldi per mangiare.

Alla corte di Joe Biden

Il primo problema dell’Argentina è che lo Stato non ha abbastanza dollari per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni. La Banca centrale non possiede valuta americana nelle sue riserve. Da dove potrebbero arrivare i dollari necessari per trasformare l’economia argentina? Un canale potrebbe essere il commercio con gli Stati Uniti. Ma per gli argentini la bilancia dei pagamenti con gli Usa (export meno import di beni e servizi) è in deficit di 9,9 miliardi. Escono molti più dollari di quanto ne entrino nel Paese.

Milei ha già bussato alla porta del Fondo monetario internazionale, ma prima di erogare altre risorse vorrà verificare se davvero ci saranno le riforme, in particolare il taglio del 15% della spesa pubblica. E comunque i dollari del Fmi non basteranno. E allora? Milei spera di contare sull’appoggio politico ed economico della Casa Bianca: nei giorni scorsi è volato a Washington per incontrare alcuni funzionari del Tesoro e soprattutto il capo della sicurezza nazionale Jake Sullivan, stretto collaboratore di Joe Biden. I due hanno discusso di come rafforzare il rapporto tra i rispettivi Paesi. Tutto ciò si tradurrà in una specie di Piano Marshall per l’Argentina? È difficile immaginare che Joe Biden, alle prese con Ucraina e Gaza, possa chiedere al Congresso di stanziare fondi per Buenos Aires. Nel caso di un ritorno di Donald Trump ci sarà certamente una buona intesa (i due simpatizzano), ma gli aiuti finanziari ad altri Stati non fanno parte della dottrina trumpiana. È più probabile invece che la finanza e l’industria statunitensi decidano di acquistare (magari facendo pure il prezzo) le aziende di Stato che Milei vuole privatizzare. I settori sono quelli strategici: telecomunicazioni, energia, banche, media e, come vedremo, c’è dentro la partita cruciale delle grandi miniere di litio.

(…) uno degli obiettivi dei Brics è proprio quello di contrastare il primato del dollaro a livello mondiale (…) Xi Jinping spinge per lo yuan. Milei (…) vuole aggrapparsi al dollaro (…)

Saltano i piani del Brasile

In campagna elettorale ha ripetuto che il primo gennaio 2024 l’Argentina non entrerà, insieme con altri cinque Paesi, nel gruppo dei Brics formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Il motivo è che uno degli obiettivi dei Brics è proprio quello di contrastare il primato del dollaro a livello mondiale, usando altre monete per i commerci e per le riserve delle banche centrali. Xi Jinping spinge per lo yuan. Milei che vuole aggrapparsi al dollaro e agli Usa scombina i piani di almeno due Paesi: quelli del presidente brasiliano, Ignacio Lula da Silva, che suggerisce di utilizzare le proprie valute almeno negli scambi tra i Paesi del Brics. E di scambi fra Brasile a Argentina ne corrono parecchi: il Brasile assorbe il 14,3% delle esportazioni argentine (dati Comtrade 2022). Si può prevedere un forte contrasto tra i due leader anche nel quadro del Mercosur, il patto di libero scambio tra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Il presidente brasiliano vorrebbe ridurre anche qui l’uso del dollaro e, nello stesso tempo, concludere un accordo con la Ue (che ora sembra vicino); Milei potrebbe spingere per un avvicinamento verso Washington. Lula, per altro, presiederà il G20 nel 2024 e il Gruppo dei Brics nel 2025. Due occasioni per guidare l’affrancamento del «grande Sud» dall’influenza americana. Forse Milei non sarà a bordo, ma lo vedremo alla prova dei fatti.

Un freno alle mire cinesi sul Sud America

La mossa del «loco» è indigesta anche per la Cina, che punta ad estendere la sua influenza sul Sudamerica. Pechino è un cliente vitale per l’economia argentina. Nel 2022 ha acquistato il 92% della produzione di soia e il 57% della carne. Inoltre il governo cinese ha già concesso all’Argentina prestiti per 18 miliardi di dollari. Ma la partita più importante è quella sul litio, la materia prima fondamentale per le batterie delle auto elettriche, di accumulo delle energie rinnovabili, e per tutti gli apparecchi elettronici. L’Argentina, con Cile e Bolivia, detiene immense riserve del minerale e finora non del tutto sfruttate. Proprio il candidato sconfitto alle elezioni, l’ex ministro Massa, aveva appena concluso un accordo con il gruppo cinese Tibet Summit Resources: investimenti per 1,7 miliardi di dollari, in cambio di 10 mila posti di lavoro nelle miniere e nell’indotto.

Nell’area argentina dell’altopiano andino sono già attive diverse aziende cinesi, fra cui la Ganfeng Lithium e la Tsingshan Holding Group. Una collaborazione chiaramente sgradita agli Stati Uniti, che pure sono presenti nei campi minerari argentini con la società Livent Corporation. Ora è lecito chiedersi fino a che punto Milei frenerà i cinesi e favorirà gli americani nella corsa al litio. La partita, dove la Ue non tocca palla, è solo all’inizio.

Sorgente: Corriere della Sera

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